CI HANNO CAMBIATI.
E’ cambiato il tempo. E’ cambiato il mondo.
Siamo cambiati noi. Anzi ci hanno cambiati. Avevamo bisogno di poco ed ora ci
hanno indotti ad avere bisogno di molto, sempre di più, senza accontentarci mai.
E non abbiamo più quiete, non abbiamo più pace.
Io allora ero ragazzo e andavo con le
pecore. D’inverno mi bastava un pezzo di pane con un pezzetto di formaggio
o quattro fichi secchi. Non avevo
neanche il cappotto, e non morivo di freddo. Guardavo il sole e l’ombra di un
albero o di una siepe per sapere l’ora che m’interessava. Se era nuvoloso o
pioveva, interpretavo l’ora a seconda dell’intensità della luce del giorno. A
nessuno di noi serviva l’orologio.
Solo una volta mi feci prendere dall’oscurità
ancora con le pecore al pascolo, e tornai a
casa che era già notte. Ma pioveva da vari giorni, con ramate di pioggia
che si susseguivano secondo le nuvole spinte da folate del vento di ponente; ed
io mi riparavo dall’acqua per l’intera giornata accucciandomi e tenendo basso l’ombrello
per parare gli scrosci sventagliati di taglio. Senza un tuono o un lampo,
perché era di novembre; ed allora i temporali cominciavano sempre di marzo,
sempre col “primo tuono di marzo”, come allora si diceva, fino a tutta
l’estate.
Poi pioveva,
pioveva solamente, durante l’autunno e l’inverno, senza tuoni né lampi.
Ora è cambiato anche il tempo, tuona sempre,
d’estate e d’inverno, e non ci si capisce più niente. Non si capisce più niente con le stagioni , ma
non si capisce più niente neanche con la frutta. D’inverno nei negozi si
vendono i pomodori e i carciofi e le zucchine, poi con la primavera e l’estate,
trovi le mele e le pere dell’anno prima. C’inducano a comprare sempre primizie,
sempre contro stagione.
Ci hanno indotto sempre più nuovi bisogni;
bisogni che allora ci apparivano impensabili. Corriamo guardando l’orologio
perché non abbiamo più tempo. E vogliamo tutto subito, sempre più subito, in
poche ore vogliamo arrivare in capo al mondo, anche se dopo arrivati non
sappiamo più che fare.
Allora si
comunicava lontano con le lettere e le
cartoline per i saluti, si attendevano le risposte con pazienza e si cantava e
si rideva. Ora le persone parlano con i cellulari, si affannano a dire sempre
le solite chiacchiere: sembrano matti
che parlano da soli camminando per la strada. Si vuole dire subito tutto e
forse non si pensa neanche a quello che si
dice. Ma intanto tutti parlano delle solite chiacchiere banali, che invadono il
mondo. E solo pochi sanno stare zitti.
Allora camminavamo a piedi, e molti non
avevano neanche le scarpe buone per camminare. E le gite erano quelle in
campagna, o fuori porta, come si diceva a Roma. Solo i maschi che erano partiti
per il militare e quelli che un tempo erano emigrati raccontavano di luoghi
lontani. Molti, specialmente le donne, vivevano, lavoravano, stavano per tutta
la vita lì dove erano nati, senza mai vedere altro posto, neanche un paese
vicino, magari per andarci alla fiera.
Ora tutti vogliono andare in vacanza, tutti
corrono per vedere il mondo, anche quelli che non hanno i soldi e fanno
prestiti per prendere l’aereo o pagare l’albergo a mille chilometri lontano. E
corrono e corrono guardando le strade, i monumenti, i resti delle più antiche
civiltà così come si sfogliano e si guardano raccolte di cartoline o come le
figure che scorrono sullo schermo di un
televisore standosene seduti a casa. Solo che fanno le foto ad ogni passo con
l’ipad e se le portano a casa solo per
far vedere dove sono stati.
E sono contenti perché hanno visto. Perché poi
ricordano solo figure di edifici e di strade; e qualche sensazione, magari di
fame, di sete, di stanchezza. Ora si va
per il mondo perché ci hanno indotto anche il bisogno di vedere, di fare
turismo, per lo sviluppo culturale, come dicono loro. Sicuramente si sviluppa
l’industria turistica; e corrono rivoli e fiumi di soldi. Così la gente ha
sempre più l’ansia di correre e non si accorge del tempo che passa.
Ricordo i vecchi che si mettevano al sole
d’inverno, all’ombra d’estate; ed erano assorti ad ascoltarsi di dentro, perché
avevano assaporato il loro tempo, l’avevano vissuto ascoltandolo minuto per
minuto nel loro silenzio e nelle loro attività, nelle loro amicizie, nelle loro
emozioni, nei loro canti distesi, nei loro momenti di attesa, di silenzi, di dolore e di
raccoglimento. Avevano davvero vissuto, perché avevano avuto tempo, senza l’ansia
di correre guardando l’orologio.
A settant’anni sentivano di aver accumulato
fatti e sentimenti ed erano stanchi di vivere, sentivano di essersi riempiti
della propria esistenza, di quella dei cari e della gente con cui avevano
cantato, riso insieme in allegria, lavorato, sofferto in confidenza.
Noi invece dobbiamo correre, dobbiamo sempre
andare di fretta, per arrivare presto, per andare e per tornare. Io non ci
capisco più. La vita non può essere una affannosa rincorsa del tempo. Invece
potrebbe essere vissuta quasi fermando il tempo dentro di noi, con i nostri
pensieri e con le nostre emozioni. Ma hanno inventato una vita in cui il tempo
ci sfugge e non lo troviamo più. Perché dobbiamo produrre sempre di più e
consumare sempre di più, pagando sempre più tasse. E lo chiamano progresso. Penso
che ci abbiano rubato il tempo. E non sappiamo più come fare per vivere un
momento di vita allegra e spensierata. Magari senza fretta, anche se solo con un pezzo di pane.