martedì 11 ottobre 2016

                                         MAREMMANA
   Il mio paese è collegato mediante la Maremmana Inferiore. Non ho mai capito perché sia stata chiamata così, ma certamente è una strada che mi richiama un’infinità di ricordi, a cominciare da quando ero bambino ed essa era una strada bianca, cioè coperta di breccia.
   Mi ci rivedo al margine di un fiume di gente, quando avevo cinque anni, e mia madre mi portava per mano durante la traslazione della salma del passionista Padre Bernardo, che poi è stato proclamato  Beato.
   E mi ci rivedo quando potevo avere si e no sei o sette  anni e, d’estate, vi corsi scalzo, con altri più grandi, a vedere  lo “sconcassè” (forse dal francese “concasseur”) che con un rumore d’inferno macinava grosse pietre a circa un chilometro da casa, riducendole in breccia per la nuova pavimentazione della strada. 
   Quel giorno, dopo un po’ che avevo visto quella frantumazione di pietre , me ne tornai da solo e, dopo aver  camminato un centinaio di metri al sole rovente, vidi un serpente che mi attraversava la strada e che mi parve lungo quanto era larga la stessa strada, cioè almeno sei metri: certamente questa lunghezza non era reale, ma frutto della mia impressione di bambino, che però mi è rimasta incancellabile.
   Tutta quella breccia “trebbiata”  dallo  “sconcassè” veniva trasportata con un camion con gomme piene e  che veniva messo in moto con la manovella inserita anteriormente nel motore. La breccia veniva scaricata dal camion in mucchi distanziati al margine della strada, poi manualmente distribuita con le pale sulla superficie stradale e, quindi, ricoperta con brecciolino più fine.
   Il traffico stradale era allora costituito dal passaggio di qualche camion, raramente di qualche vettura, soprattutto di  parecchie “vignarole e carrettini tirati da cavalli, nonché da due autobus, che noi dicevamo “i postali” perché  portavano anche la posta: uno andava direttamente a Roma per la Tiburtina e l’altro andava alla Stazione di Fara Sabina sulla Salaria.
  Forse un anno dopo, però, arrivarono altri camion con l’asfalto e la strada bianca divenne nera e levigata, e, poiché l’asfalto veniva compresso con rulli cilindrici, non fu detta da noi solo “Strada romana” ( perché conduceva Roma) ma anche “Strada cilindrata”, cioè strada con l’asfalto compresso con cilindri o rulli pesantissimi.    
   A volte mi ritorna in mente il flusso delle macchine verso Roma per effetto delle deviazioni del traffico della Salaria. Quando accadeva, per noi ragazzini era un spettacolo. Tutte le auto che dal Piceno, dal Reatino e da parte dell’Aquilano  andavano verso Roma, a causa delle tracimazioni del Tevere, venivano dirottate sulla Maremmana all’altezza di La Creta per poi passare da noi. Noi ragazzi c’incantavamo a vedere il flusso continuo e meraviglioso delle vetture, delle corriere, dei camion, che andavano verso Roma in una colonna senza fine.
   Un altro ricordo che mi torna in mente è quello del Giro  d’Italia. Ero ragazzo, forse era nel 1937 e stavo con tanta gente al Mascherone, in paese, lungo la  Maremmana. Cominciarono a passare una dopo l’altra un’infinità di auto colorate e piene di scritte pubblicitarie che precedevano la corsa.     
   C’era un gran vociare di megafoni da quelle auto commerciali per propagandare prodotti industriali, come in una fiera di ambulanti; anzi molte macchine offrivano e gettavano sulla strada cappellini con scritte reclamistiche e piccole confezioni dei loro prodotti. Era davvero una festa per noi ragazzini. Ad un certo punto, dopo qualche ora di quella fiera  vociante, alcune auto, con l’altoparlante, annunciarono la vittoria di Bartali nella scalata del Terminillo. Batterono tutti le mani perché era già cominciato il tifo dei bartaliani. Poi passò tutto il gruppo dei corridori e dopo mezzora la Maremmana si svuotò e ritornò subito nel silenzio della normalità.
   Non ricordo se fu l’anno dopo  che vidi un’altra volta il passaggio del Giro.  Quel giorno mio padre mi disse di portare le pecore al pascolo lungo il greto del Risecco, dove potevano trovare tant’erba da saziarsi e poi di condurle in un terreno attiguo al fosso e confinante con la Maremmana.
   Ero in quel campo con le pecore, quando cominciarono a passare  le auto colorate di scritte sulle fiancate in un susseguirsi che pareva interminabile. Però allora si era in campagna, e tutta quella colonna di auto passava quasi in silenzio; si sentivano solo il rumore dei motori e delle ruote sulla strada. Per me era ugualmente uno spettacolo entusiasmante, specialmente quando il gruppo dei corridori mi passò davanti e subito scomparve nelle curve col fruscio leggero delle biciclette.
   Nacque allora il mio tifo per Bartali e un accanito interesse alle notizie degli avvenimenti ciclistici, che seguivo sui giornali, ma che poi mi crebbe a dismisura con la televisione.
   Un altro fatto importante che io vedevo in quegli stessi anni del ciclismo, ma che forse avveniva da secoli, era la transumanza dei pastori con le loro pecore, che da noi accadeva proprio sulla Maremmana. Il nostro paese era una loro sosta, appena fuori però, in un uliveto del principe Torlonia di circa una dozzina di ettari.
  Le pecore scendevano a centinaia e centinaia dai pascoli montani dell’Alta Sabina, certamente da Leonessa e dal Terminillo, ma forse anche da altre località del Reatino e dalla zona di Amatrice, negli ultimi giorni di settembre, perché l’affitto dei pascoli per il periodo invernale tradizionalmente datava dal giorno di San Michele. Ripassavano da noi, risalendo dalla campagna di Roma verso i monti della Sabina a cominciare dal giorno dell’Annunziata, in cui cessava l’affitto del pascolo  e i prati venivano destinati alla fienagione. Le date allora si davano con i giorni dei santi nel mondo dei contadini e dei pastori, forse secondo la tradizione dei secoli  passati.
   Sia all’andata che al ritorno le greggi si fermavano in quell’uliveto per una notte prima di riprendere il cammino verso la campagna di Roma, in quello che era il loro territorio di pascolo a Monte Sacro   e che stava allora diventando  Città Giardino con i progetti edificatori del fascismo.
   Quella sosta era l’occasione per mio nonno per comprare una punta di castrati da macellare uno o due per ogni settimana nella sua piccola macelleria  dentro la parte vecchia del paese; e l’occasione per mio padre per comprare una punta di pecore in parte  per allevarle  per il formaggio e la lana, e in parte per macellarne una o due per settimana nella sua piccola macelleria nella parte nuova del paese.
   I preliminari dell’acquisto venivano fatti ospitando a cena i vergari in casa di mio nonno o in casa nostra. Fu così che gli ospiti di casa nostra insegnarono a mia madre come cucinare gli spaghetti alla matriciana, rigorosamente in bianco e con una variante però: mettere sul guanciale un po’ di acqua per rendere più leggero e più digeribile quel piatto sostanzioso e saporito. Un piatto che ricordo da sempre, perché mi richiama molti particolari di quei tempi.
  Ma poi venne la guerra, la seconda guerra mondiale. Tra le prime cose che vennero a mancare, oltre al sale bianco e al pane per chi non aveva grano, fu il carburante per le auto,  specialmente per le corriere. Con la politica  dell’autarchia, si realizzarono motori a gasogeno che furono applicati alle corriere.
  Così anche sulla Maremmana agli autobus che viaggiavano sulla linea del nostro paese per Roma furono applicati i motori a gasogeno, con la camera di combustione, a forma di un grosso cilindro  con più di mezzo metro di diametro ed alta quanto l’autobus, applicata all’esterno della parte posteriore dell’autobus.
   La camera di combustione veniva caricata di acqua e di carbone o carbonella. Quindi l’autobus partiva pieno di viaggiatori a velocità ridotta, perché la sua forza di trazione ne risultava quasi dimezzata.
    Lungo il viaggio,  a volte non c’era più carbonella disponibile; allora l’autista e gli stessi viaggiatori si davano alla caccia  di pezzi di legna da ardere, specialmente di fascine, di frasche e   tralci secchi delle potature nelle vigne dei campi che fiancheggiavano la strada. A volte  l’autobus  non riusciva ad andare sulle salite; ed allora erano i viaggiatori a scendere ed a spingere l’autobus fino al superamento della salita.
 Accadevano scene  drammatiche, specialmente per i ritardi, che danneggiavano i viaggiatori. In genere, finiva tutto nella  rassegnazione della gente, che però si sfogava con le barzellette sull’autarchia e sulla presuntuosità del governo che  voleva fare la guerra senza possedere le necessarie risorse.