sabato 5 agosto 2017

                      DOPO L’OTTO SETTEMBRE 1943

  Dopo che l’esercito italiano si era dissolto, i tedeschi si attestarono sul fronte di Cassino e divennero padroni del territorio. Nel nostro paese requisirono vari locali e vi si stabilirono.
  Con l’aiuto dei fascisti, che sembravano resuscitati, perlustravano le campagne per scovare gli ex prigionieri alleati usciti dal campo di concentrazione di S. Maria e che la popolazione aiutava a nascondersi nei luoghi più disparati. E poiché avevano bisogno di braccia per il carico e scarico di  munizioni e scavo di trincee e fortificazioni, facevano le prime retate di giovani, davano la caccia agli ex militari che non si erano presentati alle armi con la chiamata del governo fascista e perciò dichiarati renitenti e disertori.
     Tutti noi giovani cercavamo di sfuggire alle retate  e di nasconderci per non collaborare con i tedeschi, che erano odiati non solo per il ricordo della Grande Guerra, ma anche per il loro spirito aggressivo e la loro violenza militaresca.
    Mio fratello, tornato dalla Russia e poi da Bologna, per circa un mese salì sul Pratone di Monte Gennaro, dove si stava allestendo una banda di resistenza partigiana. Poi se ne tornò, forse perché la banda non riusciva ad organizzarsi e si andava sfaldando; non riusciva a prendere forma militare con chiarezza e scopi precisi (in qualche modo si organizzò mesi dopo e fu efficiente sotto vari aspetti, specialmente per il recupero di armi lanciate col paracadute e destinate alle varie bande di partigiani di Monterotondo e Tivoli).
   Io, che avevo allora diciassette anni, durante quello stesso mese me ne stetti sempre in campagna con le pecore. La notte dormivo  vestito, per terra, su un po’ di paglia, dentro un casaletto di una decina di metri quadrati e coperto da bandoni.
   La sera chiudevo ogni fessura per nascondere la pochissima luce che io cercavo di accendere per leggere qualche libro; infatti avevo adattato una scatolina di latta a lumino ad olio; però non avevo lo stoppino e cercavo di ricavarlo dallo spago di una vecchia rete per le pecore. Ma era difficile ottenere una lucina appena sufficiente per un po’ di lettura prima di dormire e con una fiammella che oscillava ora più chiara ed ora più lieve, ma sempre sul punto di spegnersi.
   La notte era dominata quasi incessantemente dal ronzare di un ricognitore alleato nel cielo, che spesso lanciava un gran numero di nastrini argentati per confondere i riflettori di Guidonia lanciati a scandagliare il cielo nel buio. Uno di quei nastrini lo misi per ricordo tra le pagine del mio dizionario Palazzi, ed ancora lo conservo anche se ne è rimasto solo un pezzetto.
   Poi le retate in paese continuarono frequenti, ma ognuno cercava di sfuggire in qualche modo.
    Un giorno presero anche mio fratello assieme ad una ventina di altri giovani. Li avevano rinchiusi tutti in una casa ai limiti del paese, in località Carpini, dove c’erano capannucce per galline e maiali, in mezzo a grossi cespugli e massi di pietra che si alzavano per più di qualche metro, l’uno vicino all’altro. Dopo qualche ora, due tedeschi li fecero uscire, li misero in colonna per portarli via. Mio fratello rallentò i suoi passi in fondo alla fila, e appena il tedesco si voltò verso i primi che camminavano davanti, fece un balzo e corse via, fra un cespuglio e l’altro; il tedesco gli sparò col Mauser, ma non lo prese ed egli scomparve saltando tra un cespuglio e l’altro e tra i massi di pietra in ripidissima discesa.
   Anche le perlustrazioni per la caccia degli  ex prigionieri alleati nelle campagne proseguirono specialmente con una pattuglia di tedeschi guidati da un’accanita giovane donna fascista, che attraversava i campi sempre tenendo una pistola in pugno. Ma non furono pochi gli ex prigionieri che sfuggirono alla cattura, perché protetti e assistiti dai miei compaesani, alcuni dei quali però furono scoperti e reclusi a Regina Coeli; qualcuno per miracolo non finì alle Fosse Ardeatine.

 Il pericolo cui si espose una grossa parte della popolazione per nascondere gli ex-prigionieri fu davvero enorme e significativo per spirito di solidarietà umana. Ed anche  l’atteggiamento di noi giovani verso i fascisti ed i tedeschi non fu meno significativo: per quanto possibile sfuggivamo ad ogni controllo e rifiutavamo qualsiasi collaborazione, poiché li sentivamo profondamente nemici e colpevoli di averci trascinato in una guerra impari ed umanamente ingiusta.

lunedì 24 aprile 2017

Pubblico qui questa poesia tratta dalla mia raccolta
“Pagine dissepolte” recentemente autoedita con Youcanprint.

NEL TRENTENNALE  DELLA  LIBERAZIONE

Soffrimmo in quei giorni di sangue,
Col cuore in piena, per desiderio
Di giustizia e libertà,
per dignità dell’uomo.

Era fiamma in quei giorni
Nelle nostre canzoni la speranza,
Che in noi giovani allora erompeva
Dal buio dei secoli,
Quando agli occhi brama era la luce
Dell’avvenire.

Per i morti anche soffrimmo,
Che pagavano il prezzo della fede
Con un sorriso sull’erba cruenta.
Solo essi si salvarono
Con altri pochi dei vivi:
Il tradimento era sulla soglia del giorno
Già dietro al primo chiarore dell’alba!

Ora oltre le cime dei cipressi
Nuvole irridenti ristagnano,
Su cui appare riflesso
Di sotto alla terra
Il ghigno amaro dei morti impiccati.

E noi, che camminiamo stanchi
Dentro un obliquo benessere,
Chiudiamo gli occhi per non vedere
E le orecchie per non sentire,
Colpevoli d’avere
Per solo  un giorno sperato.

sabato 8 aprile 2017

                                     IL QUARTO ATTACCO AEREO

    Gli attacchi aerei dei giorni precedenti e ancor più l’ultimo con il bombardamento dei depositi delle munizioni per il rifornimento del fronte di Cassino avevano messo in allarme tutto il paese.
   Mio padre già da qualche tempo aveva pensato di non restare in paese al passaggio del fronte e di portarci a Monteflavio, che poteva essere luogo meno pericoloso, perché in montagna e senza sbocco stradale.
   Per questo si era già accordato con un suo amico di quel luogo e con i nostri parenti monteflaviesi originari di Paganico. L’amico ci dava ospitalità per le pecore, messe  accanto alle capre sue in località  Frolleta, i parenti ci avevano messo a disposizione una casa tutta per noi.
  Visti gli attacchi aerei, mio padre non aspettò più il passaggio del fronte, ma il giorno dopo il bombardamento dei depositi di dinamite e  proiettili per cannoni, ci fece fare alcuni preparativi essenziali per andarcene in montagna. Fra l’altro, nascondemmo un po’ di olio e di vino dentro una grotta dell’ex cava di pozzolana nel nostro campo, che poi riempimmo di fascine e terra, in modo da nasconderne l’apertura.
  Il giorno dopo ancora, caricammo le cose necessarie sull’asino e uscimmo dal campo con le pecore. Con nostra grandissima sorpresa, nonostante tutti i nostri richiami insistenti, uno dei cani non volle seguirci: inspiegabile per un cane che non vuole seguire il proprio padrone per stare a guardia del nostro campo, che rimaneva incustodito!
  Risalimmo con le pecore il Risecco e poi,  percorrendo lentamente le scorciatoie, giungemmo alle Frolleta e quindi a Monteflavio. Nonostante tutto, a quel tempo si poteva ancora lasciare il bestiame incustodito nella notte; noi e gli amici caprai infatti lasciammo pecore e capre alle Frolleta e ci ritirammo nelle case a Monteflavio per trascorrervi la notte.
  La mattina dopo, non ricordo bene se il 3 aprile  (sono passati settantuno anni, una vita)  io, mio fratello e gli amici caprai tornammo al caprile. Cercammo di costruirci un riparo con le grosse pietre del luogo, quasi come nelle trincee, ma coperte in qualche modo per ripararci da eventuali schegge di bombe e mitragliamenti aerei. Di tanto in tanto io guardavo il mio paese che vedevo dall’alto della montagna, ma abbastanza vicino da distinguere bene le vie ed ogni casa.
  Verso le dieci, nella mattinata bellissima per il cielo sereno e la luce di primavera, sentimmo tremare la terra e  guardammo nel cielo per capire dove i quadrimotori fossero diretti: nei mesi passati, spesso volavano  verso Fara Sabina, e poi si udivano i bombardamenti cupi e lontani, in direzione di Orte e Terni.
  Ma quel giorno comparvero di nuovo da Montorio. Io li guardai e fu un momento. Il capostormo lanciò un segnale di fumo e subito udii i soliti fischi d’aria e vidi che le bombe cadevano e scoppiavano proprio sul nostro paese, in mezzo alle case.
  Ero stordito, perché cercavo di localizzare le esplosioni, mentre davanti agli occhi mi apparivano i nonni, gli zii e tutti quelli che ancora erano rimasti in paese. Non ricordo più se piangevo, se tremavo, se ero una statua di pietra, di quelle pietre enormi e bucate che mi stavano intorno.
  Il resto, ciò che era avvenuto, i nomi dei morti, li seppi la sera, quando molti del paese se ne vennero come noi a stabilirsi a Monteflavio.






venerdì 31 marzo 2017

                       TERZO ATTACCO AEREO

   In uno degli ultimi giorni di marzo del 1944, non ricordo quale di preciso, in una giornata meravigliosa come erano quelle delle primavere di quel tempo, io e mio fratello stavamo a diboscare una piccolissima macchia che occupava un angolo del nostro podere. Lo facevamo soprattutto con la vanga, scassando il terreno per due fitte, ma anche con la pala per rimuovere la terra scavata, e con l’accetta per tagliare le radici più grosse di alcune quercette. C’erano anche un mio cugino e un bambino che mio fratello si era portato perché figlio di un suo amico romano.
  Era passato solo qualche giorno dal secondo attacco aereo e noi lavoravamo serenamente. Verso le dieci sentimmo un rombo continuo nel cielo; guardammo e vedemmo arrivare dalle parti di Montorio ventiquattro bombardieri alleati. Mentre li guardavamo arrivare quasi sopra di noi per capire dove fossero diretti, vedemmo un segnale di fumo nero lanciato dall’aereo di testa e subito mio fratello e mio cugino che erano reduci di guerra gridarono: A terra! A terra! E ci buttammo tutti nella fitta dello scassato, uno dietro l’altro, e il bambino sotto mio fratello che lo proteggeva.
  Passò solo qualche secondo prima di sentire i fischi nell’aria delle bombe che cadevano e poi gli scoppi e  boati che facevano tremare la terra per i depositi di tubi di gelatina e di tritolo che saltavano in aria e che erano nascosti tra gli ulivi poco prima del cimitero: un bombardamento non più come quelli sentiti ogni giorno da lontano, ma un bombardamento vicino, a non più di alcune centinaia di metri da noi, anche se noi li sentivamo appena al di là dalla collina.
  Andati via gli aerei, noi sentivamo ancora  un continuo scoppiare di proiettili nei depositi nascosti negli uliveti che fiancheggiavano la Maremmana e che non erano stati colpiti direttamente dal bombardamento: forse i proiettili scoppiavano l’uno dopo l’altro per surriscaldamenti successivi.
  Noi avevamo paura che gli aerei tornassero ancora per una nuova ondata e perciò corremmo a ripararci sotto un greppo di cappellaccio, residuo di una vecchia cava di pozzolana. Vi restammo per quasi un’ora, perché gli scoppi  non accennavano a cessare.
   Io e mio cugino allora uscimmo dal riparo per vedere in direzione degli scoppi e renderci conto della situazione, ma in quel momento ci fu una fiammata così grande che sembrava  incendiare il cielo sopra la nostra collina, e un boato secco fece tremare la terra. Ci buttammo di nuovo sotto  il greppo di cappellaccio e sentimmo nell’aria sopra di noi fischiare cose che andavano a cadere sulla collina opposta.
  Che cosa era successo lo sapemmo dopo: era scoppiato il casale isolato  in un campo di  ulivi a fianco della Maremmana, nel cui primo piano era alloggiato il comando tedesco della zona e nel piano terra era collocato  un deposito di tritolo.
  Quelle cose  volate sopra di noi erano piccoli blocchi di cemento, il catenaccio della porta e altri pezzi di ferro e pietra, mentre pezzi di travi contorti e un torchio erano volati  ad alcune centinaia di metri dal luogo dello scoppio.
   In seguito sapemmo che i tedeschi del comando urlavano disperati dalle finestre del casale, ma non potevano fuggire e scampare per la grande quantità di proiettili che scoppiavano loro intorno. Con lo scoppio del deposito di  tritolo  al piano terra essi  si volatilizzarono assieme al casale, al cui posto rimase una buca enorme e profonda diversi metri.
 Poi sapemmo che poco più lontano da quel luogo  erano stati colpiti dalle bombe e morirono due miei coetanei del mio paese, che si erano recati la mattina per lavoro nei campi.









venerdì 24 marzo 2017

SECONDO ATTACCO AEREO

   Quel primo attacco aereo che aveva fatto esplodere un deposito di carburante lungo la strada di Montelibretti evidentemente fu un avvenimento che ci segnò, perché gli alleati scoprirono le strade intorno cui i tedeschi tenevano nascosti i depositi di carburante, di dinamite e tritolo e di grossi proiettili per il rifornimento del fronte di Cassino.
   Dopo qualche giorno infatti, non ricordo in quale degli ultimi di marzo, io e mio fratello stavamo a “Sandunicola” e in quel momento parlavamo con un confinante, che vangava il suo campo  di là dalla siepe di confine col nostro podere.
   Improvvisamente , venendo dalla parte di Montorio, si lanciarono a bassa quota sopra di noi due cacciabombardieri inglesi, che fecero un giro e poi sempre più a bassa quota ci mitragliarono quasi a falciare con i proiettili rasoterra.
  Noi corremmo a perdifiato a ficcarci dentro una grotta di pozzolana poco distante, dove giunse pure il nostro confinante, che aveva saltato la siepe e corso alla disperata. Intanto i cacciabombardieri avevano fatto un altro giro, ma questa volta  sganciarono diversi spezzoni, che, scoppiando, fecero tremare la terra e la grotta.
  Dopo che era finito l’attacco, notammo che due schegge avevano fatto due buchi nelle lamiere di copertura del casaletto e che vari spezzoni erano scoppiati qua e là radendo con le schegge la terra e squarciando i fusti dei nostri giovani olivi. Un grappolo di sei spezzoni invece non era esploso ed era infisso a quasi un metro sotto terra in mezzo all’erba e a una cinquantina di metri da noi.
  E’ strano che allora io non mi chiedessi perché mitragliassero noi che eravamo in mezzo alla campagna, percorsa solo da mulattiere. Eppure non potevano prenderci per tedeschi: perché volevano sparare a noi in mezzo alle campagne? Perché miravano a noi che stavamo vangando? Perché spezzonavano i nostri campi? Me lo chiedo ancora adesso.
   Evidentemente allora non me lo chiesi, perché vedevamo come nemici solo i tedeschi e non potevamo pensare che i piloti inglesi ci percepissero ancora come loro nemici. Altrimenti perché ci dovevano sparare in mezzo alla campagna?
   Strana situazione la nostra di quei giorni. E veramente tragica.


lunedì 13 marzo 2017

                           PRIMO ATTACCO AEREO

   Da settembre del ’43 i tedeschi erano anche nel nostro paese, sempre più odiati, e   noi sempre più in allarme per sfuggire alle loro retate improvvise. Solo un po’ di fascisti potevano guardarli con simpatia, alcuni con complicità.
   Infatti, comunemente non li avevamo mai sopportati, perché i nostri genitori avevano combattuto contro di loro sull’Isonzo e sul Piave e per vent’anni ci avevano raccontato delle loro battaglie e del gas che avevano buttato nell’offensiva di Caporetto. Tutta la propaganda e la retorica di Mussolini erano solo riuscite a sopire ma non a cancellare l’antipatia e l’antico rancore che avevamo per loro.
  In quei mesi d’inverno del ‘43, per tutti noi non era stata una vita serena, con la scarsa disponibilità dell’elettricità e con le luci spente per il coprifuoco, tanto che la sera ci si muoveva con i tizzoni come nel medioevo, con la penuria dei cibi, e i boati dei bombardamenti lontani e le minacce di retate dei tedeschi. Ma prima con lo sbarco di Anzio avvenuto da poco, poi con  le notizie che si captavano di nascosto da Radio Londra, ai primi fiori di marzo ci si aprivano speranze per uscire definitivamente dall’incubo in cui eravamo precipitati.
   Noi del paese andavamo in campagna come sempre.  Anche quel giorno degli ultimi di marzo, io, mio fratello e mio padre ci eravamo andati.  Era una giornata bellissima, come erano le giornate di primavera di quegli anni. Come erano stati belli i giorni precedenti, benché turbati dai tanti avvenimenti di guerra, che però a noi sembravano lontani, anche se avevamo vicino i depositi di bombe e sopra di noi passavano ogni giorno veloci caccia e lenti stormi di quadrimotori che facevano tremare la terra col rombo sordo e lontano dei loro motori.
    Quando passavano i quadrimotori, quelli detti”Fortezze volanti”, io mi mettevo a contarli nel cielo così come erano disposti a squadriglie. Se volavano più in basso, erano in genere ventiquattro o al massimo trentasei, allora il bombardamento avveniva di solito un po’ vicino, anche lungo la ferrovia Roma- Firenze; se ne contavo intorno a ottanta o centoventi, allora non solo si vedevano altissimi, ma poi il bombardamento avveniva abbastanza lontano, in direzione di Orte o di Civitavecchia.
  Quel giorno invece ero da solo a vangare e vidi improvvisamente due caccia angloamericani che da Montorio a bassa quota   saettarono oltre Montelibretti, uno dietro l’altro.  Subito dopo, il primo aereo fece una sventagliata di mitragliatrice: immediatamente  vidi innalzarsi un fiammata e poi una colonna di fumo. Poi vidi che il primo caccia fece un giro intorno alla zona del fumo, ma non vidi più l’altro aereo che lo seguiva e immaginai che la fiammata l’avesse inghiottito e arso.
  Difatti lo vidi dopo liberati, nell’estate , quando gli inglesi requisirono noi giovani per portarci  ogni giorno con i camion nelle scuderie di Montemaggiore per accudire muli e cavalli in cambio di poche Am-lire, con cui ci pagavano. Ogni volta che passavamo, vedevo la carcassa di quell’aereo poggiata fra gli ulivi a metà costa di una collina, sulla destra della strada prima di arrivare a Montemaggiore. E vi restò ancora per più di qualche anno, prima che  i contadini ne liberassero il terreno per i loro lavori.



lunedì 9 gennaio 2017

                 IL  NATALE NEGLI ANNI TRENTA
  Ricordo vagamente  il Natale dei miei anni da ragazzo. Ricordo quelli degli anni  nelle scuole elementari, perché nelle aule si doveva costruire il presepe e a noi alunni si chiedeva di portare muschio e qualche rametto di pungitopo con le bacche rosse attaccate ai loro cladodi. Per me era una disperazione, perché la mia campagna era tutta assolata e il muschio non riuscivo a trovarlo.
  Ricordo chiaramente che molti, specialmente le donne, andavano alla novena, soprattutto perché c’era qualche frate predicatore che veniva dal convento dei Passionisti. La predica della novena era qualche cosa d’importante, perché era fatta di racconti, di riferimenti al Vangelo e alla Bibbia, di parole che andavano a toccare gli animi e che incantavano gli ascoltatori. Quasi come in teatro.
  E le novene e le prediche in chiesa forse erano il teatro dei poveri e della gente che neanche sapeva leggere un giornale. Insomma, nelle sere d’inverno, riempivano il vuoto dopo le fatiche dei campi, creavano un mondo immaginario  con la magia delle parole e scuotevano emotivamente gli animi della gente da quel torpore passivo di cui era fatta la rassegnazione alle disgrazie e alle cattive stagioni.
  Allora nelle case non si facevano né presepi né alberi di Natale: i soldi erano rari e le case erano troppo anguste.  Ricordo la cena della vigilia, i giochi e i racconti che avevano il tono delle favole, ma a volte anche di fatti che a noi piccoli incutevano paure. Era una cena povera, che però si allungava con frutta secca, specie con mandorle, perché mio padre aveva nella nostra campagna molti mandorli di diverse varietà, anche quelle col guscio che si rompeva con la semplice pressione delle dita.
  Ricordo però anche i ciocchi nel focolare, la sera della vigilia messi in un gran fuoco per  Gesù Bambino che scendeva dal camino a riscaldarsi. Si creava così un alone fiabesco così fascinoso che noi bambini ci credevamo davvero e restavamo in attesa della visione e del miracolo. Chissà se ci credevano anche le nostre mamme, le nostre zie e le nostre nonne riunite insieme e indaffarate per preparare ciambelline e pangialli con mandorle, fichi secchi e bucce di arance?.
   Per tirare la serata alla lunga c’era anche il gioco della “pilocca” per i più piccoli, con gli spiccioli dentro e noi bendati col pestello in mano. Un gioco che durava  solo poche decine di minuti. Poi le donne andavano alla messa di mezzanotte. E noi ragazzini ci mettevamo intorno al focolare a sbattere le molle nel ciocco per vedere scoppiettare faville lungo il camino. Poi stanchi attendevamo il  ritorno delle donne  tra sbadigli e sonnolenza. Altri tempi, allora, quando non erano pochi quelli che magari avevano un ciocco, ma non avevano gli spiccioli per la “pilocca”  e non avevano molto di più di un pezzo di pane e quattro stracci per coprirsi.