venerdì 29 gennaio 2016

                                       I PROMESSI SPOSI   
   E’ sempre una sensazione, anche per una parola sentita o letta, che stimola un ricordo a riaffiorare dapprima come dentro una nebbiosità indistinta, poi sempre più nitido nei suoi particolari, fino a colorarsi di nuovi sentimenti, che a volte ci scuotono il cuore.
  Così, improvviso, m’è ritornato in mente quel novenario con cui comincia il racconto del Manzoni “Quel ramo del lago di Como…” e quindi la musicalità di molti brani di quel romanzo, in cui risuonano frequenti i ritmi di versi di varia misura .
   Davvero una grande opera letteraria. Da cui io ho imparato a scrivere molto di quel che so. Immiserita però nell’insegnamento di tanti, di troppi insegnanti nelle scuole del nostro paese. Che arrivarono persino, nei decenni scorsi, a chiederne l’espunzione dai programmi scolastici, dietro la speciosa proposta di sostituirlo con opere di autori più “nuovi”, novecenteschi.
  Non bastava ad essi di espungerlo dall’animo dei loro studenti con l’aridità e la noia delle loro lezioni, ne chiedevano addirittura l’espunzione dai programmi così da privarne altri studenti, che avevano la fortuna di avere quei pochi insegnanti che sapevano guidarli al godimento, al piacere, di leggerne pagine e pagine ed anche tutta l’opera.
  Con la noia di tante lezioni su annotazioni grammaticali e retoriche, per forza gli studenti leggevano un libro morto, ammazzato, e se ne allontanavano senza più mai sfogliare quelle pagine ormai impacchettate dentro un pregiudizio.
    In verità, capitò anche a me di buttare via quel libro per la noia che mi prese nel leggerne le prime pagine, specialmente quelle che si dilungavano nel riportare le gride. Ma io lo leggevo da ragazzo in campagna, in mezzo alle pecore al pascolo.    
  Infatti con i miei miseri risparmi (non mi compravo neanche un gelato alla festa patronale) ero riuscito a comprarmi a mezzo posta cinque libri dell’editrice Lucchi di Milano, fra cui, appunto, I Promessi Sposi e Mimì Bluette di Guido da Verona, allora autore celebrato e in edizione curata da Gian Dàuli: li ricordo come se ce li avessi ancora tra le mani!   
    Li avevo ricevuti dal postino e, il giorno dopo, trepidante, me li ero portati con le pecore. Mi rivedo al pascolo nel campo di “Pijtrucciu ‘e Davide”, appena oltre il Fosso degli Impiccati, che leggevo le prime pagine dei “Promessi sposi” accucciato all’ombra di un pero (in quel campo c’erano solo due o tre peri, che facevano un po’ d’ombra nelle giornate estive).
  E mi prendeva delusione e noia, alla lettura di quelle che mi parevano inutili descrizioni e digressioni che si dilungavano nella narrazione. E dopo varie pagine, lo richiusi e lo misi da parte, per sfogliare altri libri. Ma allora avevo si e no sedici anni e non ero andato oltre la quinta elementare.
  In quel tempo leggevo anche il giornale e i libri di mio padre, La Gerusalemme liberata  e  Orlando furioso, mandandone a memoria vari stralci, imitando mio padre che li aveva mandati a memoria in gran parte, assieme a diversi canti della Divina Commedia.
  Poi con altri piccoli risparmi, a mezzo posta comprai alcuni classici della Sonzogno di Milano e mi feci anche comprare a Roma il dizionario del Palazzi. Volevo studiare da solo e non sapevo come fare, poiché non potevo frequentare alcuna scuola. Intanto avevo acquisito nuove conoscenze occasionali con le varie letture, anche se confuse e senza ordine. 
 Qualche anno dopo ripresi la lettura dei Promessi sposi; mi piacque di leggerlo sin dal principio. Allora decisi di proseguire a leggere qualunque cosa mi fosse possibile e di studiare da solo il latino e il francese, la storia, di leggere i classici, dal Petrarca al Pulci, al Boiardo e ogni altro libro, tutti per intero.  
  Soprattutto mi assunsi l’impegno di leggere almeno una pagina al giorno dei Promessi sposi e del dizionario.  A quest’impegno tenni fede per almeno dieci anni di seguito, anche quando mi capitava di avere la febbre, anche a mezzanotte, dopo aver lavorato per tutto il giorno in campagna. Non trascurai mai un giorno, come i preti col breviario.
  I promessi sposi e il dizionario sono stati davvero i miei maestri di base. Con I promessi sposi ho conversato, ho riso, ho riflettuto. Dei  Promessi sposi  in particolare quasi sempre non leggevo una sola pagina aperta a caso com’era nel mio impegno, ma, preso dal piacere della lettura, ogni volta continuavo a leggerne pagine e pagine, quasi entrando io stesso nella narrazione. In dieci anni lo avrò letto per intero almeno una decina di volte, a dire poco. Anche se intanto leggevo altri libri, che andavo comprando col solito metodo del risparmio di miseri spiccioli.
  E’ vero, imparavo ma soprattutto mi divertivo con i vari personaggi e le varie situazioni, come con il don Abbondio “vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro”, che esclama: “Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! L’arcivescovo me la leverebbe? - Eh! le schioppettate non si danno via come confetti…- ribatteva Perpetua.
  Come con Renzo e i capponi di fronte all’Azzeccagarbugli  e le ambiguità che sorgono nel loro dialogo; o ancora con le figure di donna Prassede e don Ferrante, ecc. Ci sono sprazzi d’ironia, d’umorismo che nessun romanzo italiano, a parte “Piccolo mondo antico” del Fogazzaro, sparge qua e là, anche dove meno te l’aspetti, a rasserenare ed a coinvolgere il lettore, quasi come dice il Tasso nella dedica della Gerusalemme, anche se , secondo il Manzoni, “di amore ce n’è fin troppo e il mondo ha bisogno di altri sentimenti”:
 “Sai che là corre il mondo, ove più versi
 Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso;
e che ‘l vero condito in molli versi
i più schivi allettando ha persuaso…”.
  Ma nell’insegnamento, spesso I promessi sposi e lo stesso Manzoni sono messi nella gabbia della “provvidenza”, quasi suo sinonimo o metafora. E non si pongono in evidenza l’ironia, l’umorismo, non solo dell’uomo saggio e del letterato, ma anche dell’uomo che è partecipe dello spirito del suo tempo, che non è solo risorgimentale o solo cattolico liberale, ma anche in qualche modo rivoluzionario.
  Nella gabbia della “provvidenza” si fa apparire il Manzoni come uomo di chiesa, quasi un bigotto ripiegato a contemplare la sua fede. E invece non si mette in evidenza la rappresentazione della violenza, dell’ingiustizia e dell’organizzazione  del potere in don Rodrigo e i suoi bravi assieme all’insufficiente vaniloquio delle gride, tanto da parere d’essere in presenza di certi nostri tempi, con le continue leggi per combattere invano le attività delle cosiddette  organizzazioni criminali.
  E’ vero che alla fine del romanzo, nel sentirsi sollevato dalle passate minacce, don Abbondio poi quasi si pente, ma intanto si sfoga dicendo: 
   “E’ stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo piú…. Non lo vedremo piú andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell'albagìa, con quell'aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione”.
     E leggendo, a noi ormai vecchi pare ancora di vedere certa gente al tempo del fascismo, tanto da poter assimilare quella peste alla guerra e alla conseguente liberazione da tanti con quell’albagia, con quell’aria, con quel palo in corpo….
   Ed è vero che il popolano Renzo si tira fuori dalla sommossa, dal disordine sociale, ripudiando ogni violenza, ma il Manzoni pare evocare la rivoluzione francese, le rivendicazioni babuviane e adelfiane, tenendole in simpatia, quando fa pronunciare al mercante  nell’osteria di Gorgonzola con tagliente ironia “… s'era messo a predicare, e a proporre, così una galanteria, che s'ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati?


venerdì 1 gennaio 2016

                                             STRASCICHI E STRAZI DI GUERRA

  La fine della guerra non fu la fine delle pene e delle disgrazie. Non solo per i nostri ricordi.  Rimasero le rovine e i lutti. Ma anche  le ferite di dentro, le esperienze più brutte e le lacerazioni emotive. In fondo non eravamo più gli stessi di prima della guerra e neanche di prima dell’otto settembre.
  Quando noi tornammo da Monteflavio, vedemmo prima le rovine materiali: qualche casa colpita nel bombardamento, la curva a gomito, quella che noi dicevamo di Cesare Morelli, vicino alla “Fontanella”, saltata per le mine dei tedeschi. Poi cominciammo a conoscere disavventure e disgrazie di molti compaesani.
  Comunque la guerra nel nostro territorio era davvero finita.  Ma continuava nella mente di un mio vicino di casa appena ventenne. Lo scoprimmo quando per la strada  gridava: Bum! Bum! Baang! Beeeng! Era già capitato a molti nella prima guerra mondiale. E non erano guariti, ed erano detti “scemi di guerra”.
  Aveva la mente sconvolta dagli scoppi delle bombe. Nei giorni del passaggio del fronte di guerra era andato a Palombara, e passò per il Ponte di Stazzano, allorché alcuni bombardieri bimotori inglesi del tipo leggero vi sganciarono bombe da due o più quintali per abbattere il ponte  e impedire la ritirata alle truppe tedesche, ma non riuscirono a centrarlo.
  Una di quelle bombe gli scoppiò vicino, fece una buca enorme, e  la terra scavata quasi lo seppellì. Ne uscì vivo, ma con la mente sconvolta. Da quel momento non faceva che ripetere senza sosta: Bum! Bum! Baang! Beeeng!
  I genitori consultarono i migliori neuropsichiatri, lo fecero visitare nelle cliniche più qualificate di Roma, ma continuò a ripetere ovunque si trovasse: Bum! Bum! Baang! Beeeng! Finché lo ricoverarono nel manicomio di Santa Maria della Pietà su Monte Mario.
  Nel ’49 andai a fargli visita assieme al fratello. Ci fecero entrare in una sala grandissima, affollata di malati. Lo trovammo, ci venne incontro e ci salutò. Ci guardò, mi riconobbe e apparve normale, parlammo anche. Poi sottovoce mi disse: Gi’, io lo so che sono diventato matto! Mi venne il gelo a quelle parole. Capii che rivedendomi si era emozionato e per un momento gli era tornata la ragione. Ma fu solo un momento, perché dopo qualche minuto ricominciò: Bum! Bum! Baang! Beeeng!
Tornai a casa sconvolto. Non solo i morti, non solo i campi di concentramento, i feriti e i mutilati. Anche questo poteva volere e significare una guerra.

   Ma la gente dimentica facilmente. Per la gente la guerra è come un temporale. Ha paura  e cerca ripari. Ma appena passati i fulmini e torna il sereno si rimette al lavoro, canta, ride e si diverte. Così alla prima festa, quando ancora si avvertiva nell’aria l’odore e il rumore della guerra, si ricominciò a fare i fuochi pirotecnici. E i colpi dei petardi ritornarono ad essere segni di gioia. Ci si capisce ben poco in questo mondo e con la gente!