domenica 20 dicembre 2015

                      1943: NATALE PRIGIONIERI E CANNOLI

   Natale 1943. Notte santa.  E santa incoscienza. Non mia soltanto, che avevo allora appena compiuto diciassette anni. Ma dei grandi, di quelli che cominciavano ad avere i capelli bianchi e che avrebbero dovuto avere più prudenza. Che non l’ebbero non per superficialità, ma per profonda umanità, per solidarietà umana; nella brama della liberazione dai tedeschi e dalla guerra, quando c’era la resistenza.
  Eravamo a casa di zia Santa. Fuori c’era soltanto l’oscurità del coprifuoco, in cui incombevano i passi minacciosi dei tedeschi, che erano di stanza nel nostro paese. Ci stavano per gestire un centro di rifornimento di munizioni per il fronte di Cassino, ma anche per rastrellare i prigionieri alleati liberati l’otto settembre dal campo di concentramento di Santa Maria, molti dei quali s’erano rifugiati nelle campagne, in nascondigli procurati e protetti da molti compaesani.
  Nella santa incoscienza di quella sera, facevamo festa intorno al focolare, in cui ardevano due o tre ciocchi. In verità non c’era molto per festeggiare, forse non avevamo neanche il sale, che scarseggiava e che a volte si comprava nero dai tabaccai. Volevamo però far vivere il Natale anche a due prigionieri quasi come se fossero a casa loro. Davvero un sentimento di solidarietà umana verso quelli che ancora pochi mesi prima erano nostri nemici e nostri prigionieri. Ma ora erano perseguiti come noi, ben più di noi, lontani dalle loro terre e dalle loro famiglie.
   La sera di Natale eravamo tra parenti.  Ci fu più allegria, quando i due prigionieri furono fatti entrare silenziosamente e con molta prudenza, guardinghi. Ma con loro ci s’intendeva solo a gesti; e col senso di cordialità negli occhi.  Ed essi sprizzavano gioia  nel vivere un momento di convivialità e di calore umano. Non era tanto il valore del mangiare a tavola, che essi non avevano più provato da parecchio, forse da anni, quanto il sentirsi accolti in famiglia.
   Poi venne Michele, un pasticciere siciliano, che da Roma si era rifugiato in paese, presso zi’ Romoletto, perché comunista anche lui. Anzi zi’ Romolo e Michele avevano collegamenti con i comunisti e con la resistenza, tanto che un giorno ospitarono un capo dei partigiani, un sudafricano venuto in incognito; lo ricordo perché era basso e vestito con un maglione scuro.
   Quel Natale, Michele si era fatto dare da mia madre una grossa ricotta di pecora ed ora portava un grosso vassoio di cannoli siciliani. In tanta carestia, quei cannoli apparvero come brillanti in un’oreficeria: sembrava che squillassero di luce dappertutto, anche se poi era il loro profumo che inondava di più la stanza. Nessuno di noi aveva mai mangiato un cannolo, neanche mai visto;  tantomeno l’avevano visto i prigionieri, che non ricordo di quale nazione fossero.
  Quando li assaggiarono, i prigionieri si misero a ballare, ridevano, scoppiavano di gioia. Per loro divenne un rito: davano una leccatina al loro cannolo, poi lo deponevano sulla mensola del camino come si depone un santino, come qualche cosa di sacro. Tornavano a saltellare di gioia, poi di nuovo davano una leccatina al cannolo, spalancavano gli occhi per il piacere e poi tornavano a deporlo sulla mensola, così per qualche tempo. Fu un Natale meraviglioso. Anche per la convivialità con i prigionieri. Ma anche per i cannoli.
   Non ho più dimenticato quel Natale. Ma non ho più dimenticato il piacere di quei cannoli. Non ne ho mangiati mai più di così buoni, anzi quando ne mangio ne rimango sempre deluso.

                                                  

martedì 8 dicembre 2015

                                IL SABATO FASCISTA

  E’facile dimenticare. Più facile del ricordare. Forse anche più importante. Comunque, quando ritornano in mente fatti e misfatti significativi, non bisogna dimenticare, ma occorre sottolinearne e rafforzarne la memoria.
  Per questo io non dimentico i racconti che facevano i reduci della prima e della seconda guerra mondiale. Non dimentico neanche certe scene del tempo fascista, che io ho vissuto. Scene di indottrinamento e di educazione alla guerra. O, meglio, di educazione alla morte, come diceva il filosofo Maritain nel suo “Umanesimo integrale” e anche nel suo “Educazione al bivio” scritti intorno al 1935.
   Soprattutto educazione ad uniformare  la personalità  dei giovani alla volontà del partito fascista e del suo capo. Il simbolo di questa educazione “uniformatrice” era proprio l’uniforme, cioè la divisa: di Figlio della Lupa, di Balilla, di Avanguardista, ecc. Assieme all’uniforme altre cosette, come il distintivo, il gagliardetto, gli inni  e soprattutto il moschetto, cioè il modello ridotto del ’91 (per esattezza del 1891).
  Io ero ancora un quattordicenne, quando vedevo mio fratello diciottenne all’istruzione premilitare insieme ai suoi coetanei nella piazza davanti al municipio. Imparavano a marciare, ad ubbidire ai comandi di qualche tenente che si trovava per caso in licenza.
   L’istruzione premilitare era diventata obbligatoria con una legge del 1934 che istituiva il sabato fascista ad imitazione del sabato inglese. Il sabato inglese però riguardava solo la riduzione  del lavoro a metà giornata, invece il sabato fascista destinava quella metà giornata all’indottrinamento attraverso le attività cosiddette culturali e ricreative e, per i giovani da diciotto a venti anni, anche al servizio premilitare.
  E’ vero che era stato istituito anche il Dopolavoro in ogni abitato e dove possibile, in cui ci si poteva ritrovare e giocare a biliardo, ma sempre come  istituzione strumentale del partito, finalizzata sempre al “credere obbedire combattere”, cioè alla rinuncia della propria personale autonomia di giudizio, perché a pensare e a decidere doveva essere solo il capo, secondo l’ordine  gerarchico fascista. E a pensare con la propria testa poteva essere pericoloso.
  Infatti una sera, dopo che eravamo tornati dalla campagna e mentre eravamo a cena, venne a casa un cugino di mio padre. Non che quello fosse un vero fascista, ma praticava i fascisti locali. Venne  come latore di un avvertimento discreto, suggerito sottovoce a mio padre. Un avvertimento che voleva essere una minaccia e che allarmò vivamente mio padre e mia madre. La minaccia era quella di proporre mio fratello per l’esilio solo se ancora una volta si fosse espresso in quel modo.
    Infatti mio fratello, oltre a sentire i commenti  espressi in famiglia da mio padre in modo assai guardingo e riservato, leggeva il giornale tutti i giorni e spesso, la sera, andava a sentire radio Londra e radio Mosca segretamente presso un capo manipolo fascista che teneva l’ufficio di collocamento, e ci portava anche me.
   Ed era successo che durante il servizio premilitare, mio fratello aveva espresso un giudizio pessimista sulla nostra vittoria nella guerra appena cominciata, si era nel 1940, con gli altri commilitoni. E qualche spione, di quelli che non mancano mai, era andato a riferirlo al segretario del fascio. Di qui la minaccia che fece tremare i miei genitori quella sera, con tutte le raccomandazioni che ne conseguirono per mio fratello, ed anche per noi perché fossimo molto più riservati fuori di casa.