martedì 11 ottobre 2016

                                         MAREMMANA
   Il mio paese è collegato mediante la Maremmana Inferiore. Non ho mai capito perché sia stata chiamata così, ma certamente è una strada che mi richiama un’infinità di ricordi, a cominciare da quando ero bambino ed essa era una strada bianca, cioè coperta di breccia.
   Mi ci rivedo al margine di un fiume di gente, quando avevo cinque anni, e mia madre mi portava per mano durante la traslazione della salma del passionista Padre Bernardo, che poi è stato proclamato  Beato.
   E mi ci rivedo quando potevo avere si e no sei o sette  anni e, d’estate, vi corsi scalzo, con altri più grandi, a vedere  lo “sconcassè” (forse dal francese “concasseur”) che con un rumore d’inferno macinava grosse pietre a circa un chilometro da casa, riducendole in breccia per la nuova pavimentazione della strada. 
   Quel giorno, dopo un po’ che avevo visto quella frantumazione di pietre , me ne tornai da solo e, dopo aver  camminato un centinaio di metri al sole rovente, vidi un serpente che mi attraversava la strada e che mi parve lungo quanto era larga la stessa strada, cioè almeno sei metri: certamente questa lunghezza non era reale, ma frutto della mia impressione di bambino, che però mi è rimasta incancellabile.
   Tutta quella breccia “trebbiata”  dallo  “sconcassè” veniva trasportata con un camion con gomme piene e  che veniva messo in moto con la manovella inserita anteriormente nel motore. La breccia veniva scaricata dal camion in mucchi distanziati al margine della strada, poi manualmente distribuita con le pale sulla superficie stradale e, quindi, ricoperta con brecciolino più fine.
   Il traffico stradale era allora costituito dal passaggio di qualche camion, raramente di qualche vettura, soprattutto di  parecchie “vignarole e carrettini tirati da cavalli, nonché da due autobus, che noi dicevamo “i postali” perché  portavano anche la posta: uno andava direttamente a Roma per la Tiburtina e l’altro andava alla Stazione di Fara Sabina sulla Salaria.
  Forse un anno dopo, però, arrivarono altri camion con l’asfalto e la strada bianca divenne nera e levigata, e, poiché l’asfalto veniva compresso con rulli cilindrici, non fu detta da noi solo “Strada romana” ( perché conduceva Roma) ma anche “Strada cilindrata”, cioè strada con l’asfalto compresso con cilindri o rulli pesantissimi.    
   A volte mi ritorna in mente il flusso delle macchine verso Roma per effetto delle deviazioni del traffico della Salaria. Quando accadeva, per noi ragazzini era un spettacolo. Tutte le auto che dal Piceno, dal Reatino e da parte dell’Aquilano  andavano verso Roma, a causa delle tracimazioni del Tevere, venivano dirottate sulla Maremmana all’altezza di La Creta per poi passare da noi. Noi ragazzi c’incantavamo a vedere il flusso continuo e meraviglioso delle vetture, delle corriere, dei camion, che andavano verso Roma in una colonna senza fine.
   Un altro ricordo che mi torna in mente è quello del Giro  d’Italia. Ero ragazzo, forse era nel 1937 e stavo con tanta gente al Mascherone, in paese, lungo la  Maremmana. Cominciarono a passare una dopo l’altra un’infinità di auto colorate e piene di scritte pubblicitarie che precedevano la corsa.     
   C’era un gran vociare di megafoni da quelle auto commerciali per propagandare prodotti industriali, come in una fiera di ambulanti; anzi molte macchine offrivano e gettavano sulla strada cappellini con scritte reclamistiche e piccole confezioni dei loro prodotti. Era davvero una festa per noi ragazzini. Ad un certo punto, dopo qualche ora di quella fiera  vociante, alcune auto, con l’altoparlante, annunciarono la vittoria di Bartali nella scalata del Terminillo. Batterono tutti le mani perché era già cominciato il tifo dei bartaliani. Poi passò tutto il gruppo dei corridori e dopo mezzora la Maremmana si svuotò e ritornò subito nel silenzio della normalità.
   Non ricordo se fu l’anno dopo  che vidi un’altra volta il passaggio del Giro.  Quel giorno mio padre mi disse di portare le pecore al pascolo lungo il greto del Risecco, dove potevano trovare tant’erba da saziarsi e poi di condurle in un terreno attiguo al fosso e confinante con la Maremmana.
   Ero in quel campo con le pecore, quando cominciarono a passare  le auto colorate di scritte sulle fiancate in un susseguirsi che pareva interminabile. Però allora si era in campagna, e tutta quella colonna di auto passava quasi in silenzio; si sentivano solo il rumore dei motori e delle ruote sulla strada. Per me era ugualmente uno spettacolo entusiasmante, specialmente quando il gruppo dei corridori mi passò davanti e subito scomparve nelle curve col fruscio leggero delle biciclette.
   Nacque allora il mio tifo per Bartali e un accanito interesse alle notizie degli avvenimenti ciclistici, che seguivo sui giornali, ma che poi mi crebbe a dismisura con la televisione.
   Un altro fatto importante che io vedevo in quegli stessi anni del ciclismo, ma che forse avveniva da secoli, era la transumanza dei pastori con le loro pecore, che da noi accadeva proprio sulla Maremmana. Il nostro paese era una loro sosta, appena fuori però, in un uliveto del principe Torlonia di circa una dozzina di ettari.
  Le pecore scendevano a centinaia e centinaia dai pascoli montani dell’Alta Sabina, certamente da Leonessa e dal Terminillo, ma forse anche da altre località del Reatino e dalla zona di Amatrice, negli ultimi giorni di settembre, perché l’affitto dei pascoli per il periodo invernale tradizionalmente datava dal giorno di San Michele. Ripassavano da noi, risalendo dalla campagna di Roma verso i monti della Sabina a cominciare dal giorno dell’Annunziata, in cui cessava l’affitto del pascolo  e i prati venivano destinati alla fienagione. Le date allora si davano con i giorni dei santi nel mondo dei contadini e dei pastori, forse secondo la tradizione dei secoli  passati.
   Sia all’andata che al ritorno le greggi si fermavano in quell’uliveto per una notte prima di riprendere il cammino verso la campagna di Roma, in quello che era il loro territorio di pascolo a Monte Sacro   e che stava allora diventando  Città Giardino con i progetti edificatori del fascismo.
   Quella sosta era l’occasione per mio nonno per comprare una punta di castrati da macellare uno o due per ogni settimana nella sua piccola macelleria  dentro la parte vecchia del paese; e l’occasione per mio padre per comprare una punta di pecore in parte  per allevarle  per il formaggio e la lana, e in parte per macellarne una o due per settimana nella sua piccola macelleria nella parte nuova del paese.
   I preliminari dell’acquisto venivano fatti ospitando a cena i vergari in casa di mio nonno o in casa nostra. Fu così che gli ospiti di casa nostra insegnarono a mia madre come cucinare gli spaghetti alla matriciana, rigorosamente in bianco e con una variante però: mettere sul guanciale un po’ di acqua per rendere più leggero e più digeribile quel piatto sostanzioso e saporito. Un piatto che ricordo da sempre, perché mi richiama molti particolari di quei tempi.
  Ma poi venne la guerra, la seconda guerra mondiale. Tra le prime cose che vennero a mancare, oltre al sale bianco e al pane per chi non aveva grano, fu il carburante per le auto,  specialmente per le corriere. Con la politica  dell’autarchia, si realizzarono motori a gasogeno che furono applicati alle corriere.
  Così anche sulla Maremmana agli autobus che viaggiavano sulla linea del nostro paese per Roma furono applicati i motori a gasogeno, con la camera di combustione, a forma di un grosso cilindro  con più di mezzo metro di diametro ed alta quanto l’autobus, applicata all’esterno della parte posteriore dell’autobus.
   La camera di combustione veniva caricata di acqua e di carbone o carbonella. Quindi l’autobus partiva pieno di viaggiatori a velocità ridotta, perché la sua forza di trazione ne risultava quasi dimezzata.
    Lungo il viaggio,  a volte non c’era più carbonella disponibile; allora l’autista e gli stessi viaggiatori si davano alla caccia  di pezzi di legna da ardere, specialmente di fascine, di frasche e   tralci secchi delle potature nelle vigne dei campi che fiancheggiavano la strada. A volte  l’autobus  non riusciva ad andare sulle salite; ed allora erano i viaggiatori a scendere ed a spingere l’autobus fino al superamento della salita.
 Accadevano scene  drammatiche, specialmente per i ritardi, che danneggiavano i viaggiatori. In genere, finiva tutto nella  rassegnazione della gente, che però si sfogava con le barzellette sull’autarchia e sulla presuntuosità del governo che  voleva fare la guerra senza possedere le necessarie risorse.

  






lunedì 26 settembre 2016


Pubblico qui questa mia recentissima composizione

             VECCHIO
Ora, vecchio, mi affiorano di dentro
Figure amiche, antiche mie frequenze
Del tempo mio fanciullo e giovanile:
Vengono e vanno in brevi evanescenze
E tremolii di cuore,
Dentro un mondo ora dolce  ora amaro
Di presenze ed assenze,
Che stanno e ristanno
In un presente senza consistenze.


giovedì 15 settembre 2016

                         ACQUA E IGIENE NEGLI ANNI TRENTA

   Nel nostro paese eravamo fortunati per l’acqua. Sin dal Seicento i Borghese vi avevano costruito un centro di mulini e frantoi idraulici, captando l’acqua da una sorgente di Monte Gennaro mediante un condotto scoperto cui i paesani potevano attingere liberamente. Poi furono captate le acque  da Sant’Angelo e negli anni trenta avevamo cinque fontane da cui attingere acqua e un lavatoio con tre vasche per insaponare i panni, per ripassarli e risciacquarli.
   Nelle fontane c’era sempre un andirivieni di donne sulla, che portavano acqua in casa con le conche di rame sulla testa. Il posto della conca in casa era nell’acquaio, cioè a nnu sciacquaturu. E nella conca, o appeso alla parete, c’era u sotellu, cioè il ramaiolo, con cui ognuno beveva a suo piacimento attingendo dalla conca, senza bisogno di bicchieri.
   Meno che sull’acqua, si lesinava su tutto, anche perché c’era davvero poco. A cominciare dalla casa. I più poveri avevano un’unica stanza, la stessa per vivere, per mangiare, per dormire e per morire. Anche con sette o otto figli. Ed allora di figli se ne facevano molti, a parte la “battaglia demografica” del Duce, sia perché a non farli era peccato secondo il prete, sia perché erano una risorsa per la famiglia e per i vecchi (che allora non avevano la pensione) sia perché ne morivano anche tanti:  ad una mamma che ne aveva avuti una ventina ne erano rimasti appena sette.  I meno poveri, o che stavano un po’ meglio, avevano due stanze, una per cucinare e una per dormirvi tutti insieme. Solo alcuni avevano più di due stanze per la propria abitazione. Ecco perché durante tutta l’estate quasi tutti i maschi dormivano in campagna, nelle capanne di paglia o sotto gli alberi più folti per ripararsi dalla guazza.
   Comunque, a parte quelle di alcune famiglie, in nessuna altra casa c’era il bagno, cioè non c’era il cesso. Perché non c’era l’acqua corrente, non c’erano le fogne, anche se nella parte nuova del paese c’erano gli scoli per l’acqua piovana. Nelle cucine invece c’era un secchio posto sotto l’acquaio per la raccolta dell’ acqua usata, che spesso veniva buttata per la strada.
   D’altra parte, proprio perché mancavano i bagni, c’erano gli orinali (i rinali) sotto i letti, cioè i vasi da notte, e su trespoli in ferro i bacili per lavarsi le mani e la faccia al mattino. In verità molti letti erano fatti di tavole con sopra pagliericci imbottiti con brattee di granturco che fungevano da materassi.
   Il secchio sotto l’acquaio consentiva il recupero della sciacquatura dei piatti, che veniva riciclata per il beverone dei maiali, custoditi nei “fratticci” posti fuori dell’abitato, ma qualche volta anche nelle stalle poste sotto le case.
   La pulizia personale era davvero un bel problema, che però troppo spesso non si poneva affatto come un vero problema. Pareva del tutto naturale lavarsi solo la faccia e qualche volta, ma solo qualche volta, anche tutto il corpo, con la piccola bagnarola di latta posta in mezzo ad una stanza. Come non era affatto un problema per i maschi andare per i propri bisogni corporali appena fuori del paese, dietro un cespuglio o al riparo di qualche pietraia.
   Che la pulizia personale non fosse un problema era un’idea che veniva da lontano, forse dal medioevo. Forse da certe prediche di cui si sentiva ancora l’eco. Perché bisognava curarsi l’anima e non il corpo, che era fonte di peccato, specialmente se si faceva il bagno, in cui ci si prendeva cura delle parti intime. Come era anche fonte di peccato il corpo delle donne per diaboliche tentazioni, per cui andava coperto sino al capo per nascondere i sensuali capelli, con grandi fazzoletti  legati sotto al mento, come si vedono ancora in certi quadri di cose sacre, ed oggi ancora in molte donne islamiche immigrate.
   Ricordo che un vecchio prete, verso il 1960, mi diceva che il sapone e il bidé erano strumenti inventati per opera del diavolo. E ricordo che un vecchio del mio paese si vantava di lavarsi la faccia, ma solo la faccia, ogni settimana, perché gliela lavava il barbiere col pennello e il rasoio facendogli la barba.
   Ed erano normali i pidocchi delle bambine e le pulci e le cimici nei letti. Oggi sembra incredibile, dopo il DDT e altri insetticidi, ma specialmente per  la disponibilità dell’acqua nelle case. Anzi penso che per i giovani di oggi queste cose siano proprio incredibili; e che non possano immaginare di vedere mamme spidocchiare i capelli delle figlie e schiacciare i pidocchi fra le unghie dei pollici anche in mezzo alle strade, come era comune allora e come era naturale per noi ragazzi.
   La pulizia personale non era un problema, come invece era per gli antichi romani, che non potevano vivere senza il bagno quotidiano. E come è per gli islamici, per i quali l’abluzione del corpo è purificazione rituale obbligatoria, sia nella forma di abluzione minore che in  quella di abluzione  maggiore.
   C’era anche da noi una specie di abluzione rituale, ma riguardava la casa e si svolgeva  con le cosiddette pulizie di Pasqua. Allora, nei giorni precedenti la Pasqua, le donne pulivano la casa a fondo e le più giovani spiccavano gli utensili di rame dalle pareti delle cucine, li portavano vicino alle fontane e li lucidavano con la pozzolana, per farli brillare come nuovi, sicché, per asciugarli, ne facevano spettacolo per tutto il giorno, anche per dimostrare lo stato della propria agiatezza nei confronti dei meno agiati e dei più poveri.
   Il mondo allora era fatto anche di queste miserie; ma in fondo oggi non è molto cambiato, perché si mostrano auto più o meno potenti, orologi di pregio e altro con lo stesso intento d’allora.
   Il problema dell’igiene però non riguardava solo gli adulti, ma specialmente i bambini di due, tre, quattro anni che venivano lasciati a giocare per la strada polverosa col sederino nudo sotto gli abitini comuni ai maschi e alle femminucce, perché le mutandine si sarebbero dovute lavare ogni momento a causa dei loro bisognini fatti per la strada. E ciò era la causa di molte loro malattie intestinali e della morte di numerosi bambini.
   L’igiene dipendeva anche dalle bestie, cioè dalle galline, dai somari, dai buoi, dai cavalli, ecc. custoditi nelle stalle accanto alle case o che razzolavano liberamente per le strade, con il relativo letame  e con le mosche, le pulci e le zecche dei cani e dei gatti. Per questo di tanto in tanto veniva emessa qualche ordinanza per l’allontanamento delle bestie dall’abitato, ma restavano sempre disattese, proprio come le grida manzoniane, anche se quello era il tempo del fascismo, quello del credere obbedire e combattere. Ma il Duce allora aumentava le tasse a tutti per andare con la guerra a costruire le strade e le case agli abissini in Africa. Anzi chiedeva il dono delle fedi dei poveracci per le sue conquiste. E intanto da noi si seguitava a vivere nella miseria.

   Il problema dell’igiene durò anche dopo la guerra, fino a  quando vennero le macchine agricole che fecero scomparire gli animali: asini, buoi, cavalli e tutte le altre bestie. Però io non sono affatto convinto che le macchine siano più pulite delle bestie; certamente non sono ecologiche come gli animali, tanto che producono gas venefici, polveri sottili e rumori tremendi, non il nobile letame che nutre ogni pianta e ci dona ogni bendidio della natura.  

lunedì 5 settembre 2016

                                   OTTO SETTEMBRE 1943

    L’otto settembre  nel mio paese è la ricorrenza della Madonna del Passo.
Quel giorno del 1943 io ero in campagna, ma credo che abbiano fatto solo la cerimonia in chiesa e una mesta e piccola processione al mattino. Da un po’ di tempo non c’erano più feste e si pregava forse solo perché finisse subito la guerra, non più per la vittoria, come quando Mussolini dichiarò la guerra il dieci giugno 1940 e quando voleva spezzare le reni alla Grecia. Ormai le avevamo noi le ossa spezzate, anzi una parte ce le tenevano in mano gli Angloamericani, che avevano conquistato parte del Mezzogiorno.
    La  sera di quell’otto settembre  ancora faceva caldo, anche se c’era un po’ di vento. E pareva una sera addormentata dentro una luce ormai fioca. Ma ci fu un’esplosione di tripudio, quando la radio comunicò il proclama di Badoglio.  Lo scampanio risuonava dentro le case e la gente si riversò nelle strade in gruppi festosi.
   Anche io uscii per la strada e per qualche ora partecipai al tripudio; nei gesti e negli occhi della gente c’era allegria per la fine della guerra e la speranza gioiosa di riabbracciare figli e fratelli che sarebbero tornati sani e salvi dai lontani fronti di guerra.
   Quando però tornai a casa per la cena, trovai mio padre con la testa  fra le mani e i gomiti appoggiati sul tavolo, come di solito faceva nei momenti difficili; e quando io dissi che fuori facevano festa, egli mormorò: Adesso comincerà la guerra, e sarà tragica! Io allora rimasi di sasso, tra l’incredulo e il dubbioso.
   La mattina dopo, sul tardi, come al solito col mio somaro m’incamminai verso la campagna, attraversando il paese lungo la provinciale, e subito incontrai una lunga fila di centinaia e centinaia di soldati inquadrati che, sudati e stanchi, marciavano in direzione di Tivoli. Erano reparti della divisione Re, provenivano  dalla Jugoslavia ed erano scesi dal treno a Passo Corese; ricordo che portavano la cravatta rossa.
   Proseguendo, all’altezza di Via Oberdan, vidi molti soldati spianare improvvisamente i fucile in atto di sparare e molti altri che sfilavano le bombe a mano per lanciarle dietro di me. Io mi volsi e vidi che dalla direzione di Tivoli era giunta una camionetta con quattro ufficiali tedeschi, mentre udivo il concitato ordine dei nostri ufficiali: Ragazzi non sparate! Non sparate! Non abbiamo ordini, ragazzi non sparate! Vidi che i nostri soldati abbassavano i fucili e rimettevano in tasca le bombe, poi mi voltai e vidi i quattro ufficiali tedeschi, impassibili e rigidi come se fossero di marmo, andare via incolumi verso Montelibretti sulla camionetta, che si era arrestata.
  Ripresi il cammino e, uscendo dall’abitato, udii continui scoppi di bombe in direzione di Monterotondo, che mi si scopriva di fronte, oltre le colline, in fondo alla valle del Tevere. Si vedeva anche il fumo delle bombe ed avvertivo che quello non era un bombardamento, ma una vera battaglia che si combatteva a pochi chilometri da noi.
   Comunque per qualche giorno non sapemmo niente di ciò che era avvenuto; lo sapemmo diversi giorni dopo, ma sempre confusamente, perché le notizie ci giungevano  per sentito dire. Sapemmo che c’era stata una battaglia tra i nostri soldati e i paracadutisti tedeschi, cui avevano partecipato anche i cittadini di Monterotondo, da sempre notoriamente antifascisti.
   Il giorno dopo, cioè il nove, vidi gli stessi soldati della divisione Re, che tornavano indietro dalla strada di Tivoli, questa volta non più inquadrati, ma a gruppi senz’ordine, tutti senz’armi, molti con le divise in disordine, altri  già vestiti in borghese, alcuni avevano un asino e uno ci stava sopra a cavalcioni. Non parevano più soldati, ma  giovani che camminavano a gruppi come se tornassero da una gita o da un pellegrinaggio, perché i loro comandanti li avevano abbandonati senza ordini, senza un capo. Era impossibile capire quello che stava accadendo.
  Qualche giorno dopo cominciarono a tornare anche i militari compaesani dislocati nelle varie città italiane. Giungevano alla spicciolata, a piedi o con mezzi di fortuna, tutti però senza divisa militare ma vestiti con abiti di fortuna,  avuti cortesemente dalla gente dei vari luoghi attraversati, per non essere presi dai tedeschi.
  Un mio cugino, che aveva idee fasciste, si stava rivolgendo in piazza verso alcuni di questi soldati, rimproverandoli del fatto che abbandonavano il servizio, invece di combattere contro gli inglesi. Lo sentì mio padre, che, irato, lo prese a schiaffi davanti a tutti.
   Dopo una settimana tornò anche mio fratello, del Sesto Bersaglieri di Bologna, che con un viaggio fortunoso ebbe la possibilità di giungere a Monterotondo, dove una parente che l’accolse gli parlò della battaglia di pochi giorni prima, e di là a piedi e per strade di campagna, se ne tornò a casa.  
   Intanto, dopo due giorni dal proclama di Badoglio mi pare, ci fu nel nostro territorio uno sciamare di prigionieri inglesi del campo di Santa Maria di Montelibretti, sulla Salaria. Cercavano di rifugiarsi sulle montagne o nascondersi nelle nostre campagne per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi.
   Si stava avverando la previsione di mio padre, ed io cercavo di capire perché stava avvenendo quel disastro.  Col tempo e con le letture dei giornali, poi mi sono sempre arrovellato sulla funzione di quei reparti della divisione Re, richiamati dalla Jugoslavia ed avviati alla difesa della Tiburtina, dove c’erano già schierate altre divisioni, come la Centauro, e dove sarebbe passata la famiglia reale in fuga verso Brindisi.
   E mi sono poi sempre chiesto come mai i tedeschi non abbiano attaccato il re in fuga con i loro paracadutisti e i loro aerei, come mai il re e i suoi generali abbiano lasciato senza ordini il nostro esercito e come mai i tedeschi abbiano potuto prelevare il Duce dal Gran Sasso senza dover combattere. Tutto questo è un mistero che non potrò conoscere, ma che vorrei proprio conoscere. Anche se immagino cose non impossibili o anche facilmente immaginabili, che però non si possono documentare.

  

venerdì 12 agosto 2016

                                  CI HANNO CAMBIATI.

   E’ cambiato il tempo. E’ cambiato il mondo. Siamo cambiati noi. Anzi ci hanno cambiati. Avevamo bisogno di poco ed ora ci hanno indotti ad avere bisogno di molto, sempre di più, senza accontentarci mai. E non abbiamo più quiete, non abbiamo più pace.
    Io allora ero ragazzo e andavo con le pecore. D’inverno mi bastava un pezzo di pane con un pezzetto di formaggio o  quattro fichi secchi. Non avevo neanche il cappotto, e non morivo di freddo. Guardavo il sole e l’ombra di un albero o di una siepe per sapere l’ora che m’interessava. Se era nuvoloso o pioveva, interpretavo l’ora a seconda dell’intensità della luce del giorno. A nessuno di noi serviva l’orologio.
   Solo una volta mi feci prendere dall’oscurità ancora con le pecore al pascolo, e tornai a  casa che era già notte. Ma pioveva da vari giorni, con ramate di pioggia che si susseguivano secondo le nuvole spinte da folate del vento di ponente; ed io mi riparavo dall’acqua per l’intera giornata accucciandomi e tenendo basso l’ombrello per parare gli scrosci sventagliati di taglio. Senza un tuono o un lampo, perché era di novembre; ed allora i temporali cominciavano sempre di marzo, sempre col “primo tuono di marzo”, come allora si diceva, fino a tutta l’estate.
Poi pioveva, pioveva solamente, durante l’autunno e l’inverno, senza tuoni né lampi.
   Ora è cambiato anche il tempo, tuona sempre, d’estate e d’inverno, e non ci si capisce più niente.  Non si capisce più niente con le stagioni , ma non si capisce più niente neanche con la frutta. D’inverno nei negozi si vendono i pomodori e i carciofi e le zucchine, poi con la primavera e l’estate, trovi le mele e le pere dell’anno prima. C’inducano a comprare sempre primizie, sempre contro stagione.
  Ci hanno indotto sempre più nuovi bisogni; bisogni che allora ci apparivano impensabili. Corriamo guardando l’orologio perché non abbiamo più tempo. E vogliamo tutto subito, sempre più subito, in poche ore vogliamo arrivare in capo al mondo, anche se dopo arrivati non sappiamo più che fare.  
  Allora si comunicava lontano  con le lettere e le cartoline per i saluti, si attendevano le risposte con pazienza e si cantava e si rideva. Ora le persone parlano con i cellulari, si affannano a dire sempre le solite chiacchiere:  sembrano matti che parlano da soli camminando per la strada. Si vuole dire subito tutto e forse non si pensa  neanche a quello che si dice. Ma intanto tutti parlano delle solite chiacchiere banali, che invadono il mondo. E solo pochi sanno stare zitti.
   Allora camminavamo a piedi, e molti non avevano neanche le scarpe buone per camminare. E le gite erano quelle in campagna, o fuori porta, come si diceva a Roma. Solo i maschi che erano partiti per il militare e quelli che un tempo erano emigrati raccontavano di luoghi lontani. Molti, specialmente le donne, vivevano, lavoravano, stavano per tutta la vita lì dove erano nati, senza mai vedere altro posto, neanche un paese vicino, magari per andarci alla fiera.
   Ora tutti vogliono andare in vacanza, tutti corrono per vedere il mondo, anche quelli che non hanno i soldi e fanno prestiti per prendere l’aereo o pagare l’albergo a mille chilometri lontano. E corrono e corrono guardando le strade, i monumenti, i resti delle più antiche civiltà così come si sfogliano e si guardano raccolte di cartoline o come le figure che scorrono sullo schermo  di un televisore standosene seduti a casa. Solo che fanno le foto ad ogni passo con l’ipad  e se le portano a casa solo per far vedere dove sono stati.
  E sono contenti perché hanno visto. Perché poi ricordano solo figure di edifici e di strade; e qualche sensazione, magari di fame, di sete, di stanchezza.  Ora si va per il mondo perché ci hanno indotto anche il bisogno di vedere, di fare turismo, per lo sviluppo culturale, come dicono loro. Sicuramente si sviluppa l’industria turistica; e corrono rivoli e fiumi di soldi. Così la gente ha sempre più l’ansia di correre e non si accorge del tempo che passa.   
   Ricordo i vecchi che si mettevano al sole d’inverno, all’ombra d’estate; ed erano assorti ad ascoltarsi di dentro, perché avevano assaporato il loro tempo, l’avevano vissuto ascoltandolo minuto per minuto nel loro silenzio e nelle loro attività, nelle loro amicizie, nelle loro emozioni, nei loro canti distesi, nei loro momenti di attesa, di silenzi, di dolore e di raccoglimento. Avevano davvero vissuto, perché avevano avuto tempo, senza l’ansia di correre guardando l’orologio.
  A settant’anni sentivano di aver accumulato fatti e sentimenti ed erano stanchi di vivere, sentivano di essersi riempiti della propria esistenza, di quella dei cari e della gente con cui avevano cantato, riso insieme in allegria, lavorato, sofferto in confidenza.

   Noi invece dobbiamo correre, dobbiamo sempre andare di fretta, per arrivare presto, per andare e per tornare. Io non ci capisco più. La vita non può essere una affannosa rincorsa del tempo. Invece potrebbe essere vissuta quasi fermando il tempo dentro di noi, con i nostri pensieri e con le nostre emozioni. Ma hanno inventato una vita in cui il tempo ci sfugge e non lo troviamo più. Perché dobbiamo produrre sempre di più e consumare sempre di più, pagando sempre più tasse. E lo chiamano progresso. Penso che ci abbiano rubato il tempo. E non sappiamo più come fare per vivere un momento di vita allegra e spensierata. Magari senza fretta,  anche se  solo con un pezzo di pane.

giovedì 14 luglio 2016





  Riporto qui di seguito la breve PREMESSA alla mia raccolta VERSI ORTICANTI edito da Youcanprint

                                           PREMESSA
  Per questa mia tematica satirica, ho fatto ricorso al vecchio stornello popolaresco, passando dal modo “a dispetto” a quello epigrammatico. Più semplicemente ho voluto scrivere epigrammi in forma di stornelli, in modo da unire l’efficacia e la rapidità      di una composizione brevissima  all’atmosfera  popolareggiante   di un mio linguaggio, che non vuol essere  né una lingua né un dialetto determinato, ma che, in un certo qual modo, potrebbe dirsi di tipo idiolettico.
  Qui ho raccolto complessivamente 164 stornelli,  scritti negli ultimi anni, disponendoli per quattro in ciascuna pagina. I primi tre stornelli di ogni pagina trattano di un argomento specifico, il quarto invece, quasi come un tormentone che si estende per tutta l’operetta, vuole ironizzare sull’intimismo solipsistico, sul sentimentalismo emotivo e sull’uso di metafore eccessive di troppi poeti, tesi a cogliere un ipotetico lirismo emanato dal solo artificio della parola, slegata spesso anche da quel contesto metrico che è proprio della struttura poetica.






sabato 25 giugno 2016

                            CANNETI  E  VIGNE
  Il territorio del mio paese  è tutto di colline basse, che si succedono ognuna accanto alle altre, come groppe di un branco di pecore che si riparano dal sole canicolare. Tra le une e le altre, le piccole valli hanno una qualche frescura del terreno, più raramente vi scorre qua e là un qualche ruscelletto che in estate inverdisce appena una sinuosa e stretta striscia di terra.
  Proprio in quelle piccole valli, dove il terreno si fa in qualche misura più umido, c’erano i salici e crescevano i canneti, mentre qua e là per le colline venivano coltivate le vigne trionfanti di tralci, che si allungavano come festoni ornati di quel celeste denso che dava ad essi il solfato di rame appena irrorato.
   Nei campi a coltura mista, come erano e sono ancora  quelli del mio paese, ogni contadino aveva la sua vigna, per ricavarne almeno il vino per il suo consumo familiare. E tutti i contadini che possedevano terreni vallivi e più o meno umidi, avevano alberi di salice e canneti, gli uni e gli altri preziosi per il sostegno delle viti.
   La coltivazione delle vigne era allora molto varia, condizionata dalle varietà dei terreni, dalla esposizione solare e dalla posizione più o meno a monte delle colline.  C’erano numerosi campi con viti sostenute da piccoli alberi, specialmente aceri ed ornelli, a volte con “carnevali” che collegavano un albero all’altro con l’aiuto di un filo di ferro che fungeva da tirante .
  E c’erano le viti tirate a “conocchia” (ogni vite era sostenuta da quattro canne disposte a piramide) oppure a filare (ogni vite era sostenuta da due canne incrociate ad ics, che si univano più in alto con quelle delle viti adiacenti in modo da formare quasi una rete). Tutte le viti e  le canne, sia a conocchia sia a filare, erano legate e tenute insieme con legacci di vinchi e di ginestre.
   La lavorazione della vigna era assai laboriosa, a cominciare dalla vangatura, che era il primo lavoro dopo quello della potatura. Si doveva vangare filare per filare, e tagliare la prima corona di radici superficiali di ogni vite con un ronchetto ( u rungittu) che fungeva anche da sterratore per la vanga, quando s’intoppava per il terreno argilloso. Un lavoro pesante e lungo, che però veniva compensato dalla semina e raccolta di fagioli e da piante di carciofi nello spazio tra un filare e l’altro.
  Per la tenuta della vigna era necessario l’impiego delle canne. Dopo la vangatura invernale, bisognava fare la cernita delle canne usate nell’anno precedente, e sostituire quelle ormai fragili con le canne nuove, tagliate dal canneto a gennaio con luna in fase calante. Quindi occorreva piantare ogni canna al posto giusto e provvedere alla legatura con le parti della vite, mediante legacci di vinchio o di ginestra.
   Senza le canne non si potevano tenere le vigne. Ecco perché i contadini avevano nelle valli piante di salici e canneti. Chi non aveva canneti, doveva per forza comprare le canne da chi ne aveva da vendere.
   La coltivazione della canna comune può dare materia preziosa per la trasformazione industriale e la produzione della cellulosa. Ma i contadini fino ad allora non lo sapevano. Per loro era preziosa per le vigne ed anche per il sostegno dei pomodori e dei fagiolini nei campi e negli orti.
  Lo seppero allora, quando c’era l’attacco della fillossera, c’era la crisi del commercio delle uve e dei vini, e c’era la crisi economica, per cui non si trovava più una lira per pagare  le tasse sempre più gravose, giacché di soldi se ne spendevano parecchi in Libia e in Abissinia.
  Lo seppero quando alcuni commercianti forestieri vennero ad offrire prezzi assai convenienti per i rizomi delle canne. Si diffuse subito nel paese un’aria nuova, quasi un po’ di allegria nei visi rugosi e sdentati di tanti contadini resi vecchi anzi tempo per le fatiche e gli stenti della vita: vedevano la possibilità di maneggiare finalmente qualche soldo, che ravvivava le loro speranze.
   E si dettero a cavare i rizomi delle canne, a “cioccare” i canneti, a finirli. Io vidi allora persino camion carichi di rizomi risalire la strada  sterrata di “Sandunicola”, con i contadini che avevano negli occhi un’altra luce, anche se ora avevano saputo che da quei rizomi le industrie avrebbero fabbricato la nitrocellulosa, la polvere da sparo per la produzione di bombe e proiettili in preparazione di una nuova guerra.
   Lo sapevano che dopo la guerra d’Abissinia e la guerra civile spagnola ci sarebbe stata per i loro figli una nuova guerra, cui miravano la “battaglia demografica” e la tassa sul celibato. E sapevano che i rizomi delle canne servivano per i proiettili che avrebbero sparato i loro figli. Ma quei soldi ricavati quasi a buon mercato, quando c’era la crisi del commercio delle uve e del vino, li rendevano più leggeri ed allegri, quasi un po’ felici. Anche se poi, dopo qualche anno, l’avremmo tutti pagata cara.










lunedì 20 giugno 2016

                                      VECCHIE  BARBIERIE  
   Negli anni trenta ancora molti del mio paese portavano cappelli, altri più giovani portavano coppole ed altri cominciavano ad andare in giro senza  copricapo, ma con i capelli pettinati, tirati con la brillantina, a volte con la scriminatura.      Alcuni, fra cui mio padre e mio nonno, portavano ancora i baffi, nessuno si faceva più crescere la barba, fuorché Scialapè, un boaro che aveva fatto la guerra dell’85-88 in Abissinia, e che aveva la barba lunga e bianca e un cappellaccio alto, quasi come quelli che si vedono nelle incisioni ottocentesche di Pinelli.    Pochi allora cominciavano a farsi la barba da soli con le lamette, pochi altri usavano il rasoio, come mio padre, che io vedevo con curiosità affilarlo alla coramella tirata alla maniglia di una finestra.
   C’erano due o tre barbierie allora in paese, e ciascuna svolgeva indirettamente anche un ruolo aggiuntivo, di natura sociale.  Quella che apriva più giorni della settimana era tenuta da appassionati di musica, e fungeva anche da ritrovo per giovani, che si dilettavano  con la chitarra e col mandolino e imparavano a suonarli. 
    L’altra apriva solo il sabato sera e la domenica mattina, per radere barbe di una settimana e tagliare capelli cresciuti di qualche mese. In questa barbieria settimanale, i contadini qualche volta discutevano sui lavori di campagna, sull’andamento stagionale, e sì comunicavano reciproche esperienze, imparando gli uni dagli altri;più spesso,  in quanto reduci, raccontavano i loro fatti della Grande Guerra, e così facevano conoscere e tramandavano le loro memorie della vita in trincea, delle privazioni e dei combattimenti di una quindicina di anni prima.   Io, da ragazzo, ci andavo per farmi fare u carusu, cioè per farmi tagliare i capelli a zero come tutti i ragazzi di quel tempo, per non dare campo ai pidocchi ( le bambine, coi capelli lunghi, venivano spidocchiate dalle mamme in mezzo alla strada). Però vi andavo quasi sempre  per ascoltare i loro discorsi, specialmente quelli di guerra.
   Il locale era a piano terra. Era quadrato e su due pareti consecutive erano collocati tre specchi con a fronte tre poltrone bianche con testiera; sui lati opposti vi erano collocate due panche lunghe quanto le pareti, per comodità dei clienti in attesa del loro turno e di chi voleva partecipare alle conversazioni.   Quando parlavano dei campi, essi discutevano sui lavori più opportuni per le fasi della luna, sui tempi e sui modi di potare le varie specie di alberi, sui raccolti del momento.
   Al tempo della semina e della raccolta del grano, discutevano  di quali fossero le migliori varietà del frumento, secondo il rendimento, cioè il Reatino, il Frassineto, il Carosello, il Roma, jl Saracolla, che allora erano i grani più diffusi.   Oppure discutevano se quella o quell’altra zona fosse adatta per la coltivazione di cerasi o no, se fossero opportuni o no i concimi chimici, specialmente la calciocianammide allora in voga.   Infatti alcuni erano contrari alle concimazioni chimiche, perché, secondo le loro esperienze, sfruttavano il terreno e lo rendevano più produttivo al massimo per due anni, ma poi lo rendevano sempre più sterile e sempre più bisognoso di maggiori quantità di concime chimico.
   Anche se ragazzo, io ero curioso di questi discorsi ed ero meravigliato nel sentire tante preziose conoscenze accumulate sulla base delle loro esperienze, tanto che poi sono stato sempre più convinto che il mestiere di contadino richiede capacità di osservazione e di una stratificazione di conoscenze empiriche davvero ragguardevole, anche se poi i contadini sono tenuti per ignoranti in quella che comunemente s’intende come cultura alta e ufficiale.
  Quello che più mi affascinava però erano le conversazioni sui fatti della Grande Guerra. Vi si parlava soprattutto di Someggiata, di Artiglieria da campagna e da montagna, di Granatieri, di Fanteria, di Bersaglieri. Ed avevo imparato i nomi dei luoghi più cruenti, come il Sabotino, il Carso, il Pasubio, la Conca di Plezo, Monte Nero, Caporetto, la Bainsizza e tanti altri.  
  Soprattutto raccontavano delle trincee, dei reticolati, delle cesoie per tagliare i reticolati, delle bombarde, del gas asfissiante, dei pidocchi, della fame, del riso che diventava  colla e non si poteva mangiare, della ritirata di Caporetto, del ponte del Tagliamento fatto saltare per ritardare l’avanzata austriaca sulla pianura del Veneto.
  Quando raccontavano di quei giorni di guerra, essi sembravano lieti, come se volessero dire che erano ben felici di essere scampati da quell’inferno: non lo dicevano, ma gli si leggeva in faccia, mentre accennavano e chiedevano conferma a uno che chiamavano Serge’, per il fatto che era stato il più alto in grado, cioè sergente.  Vi teneva banco anche uno più giovane e che non aveva fatto la guerra, ma che, negli anni del dopoguerra, aveva svolto il servizio di leva per due anni a Postumia.  Anche lui era stato sergente, ma parlava della vita militare come se fosse un esperto dell’attività bellica e, tanto più perché non era stato in guerra, gli altri lo chiamavano Badoglio, per prenderlo in giro. 
  Io proseguii ad andarci spesso, per alcuni anni, perché era anche un passatempo per me nelle sere d’inverno. Ma la barbieria durò fin dopo la seconda guerra mondiale, fino al referendum di Repubblica o Monarchia del 1946. Allora cominciarono a scontrarsi tra di loro: due erano fratelli, ma uno era monarchico e l’altro era comunista e repubblicano come anche il terzo barbiere. Cominciarono a dibattere, a scontrarsi, a non andare più d’accordo, sicché dopo la vittoria della Repubblica, la barbieria si sciolse ed ognuno dei barbieri si mise per conto proprio. Ma le  belle serate vivaci come quelle di un circolo finirono, col rammarico mio e di molti altri.

lunedì 25 aprile 2016

                        IL 25 APRILE DI UN NOVANTENNE
   Noi allora giovani ci nutrivamo d’ideali e di speranze già dall’otto settembre del 1943, con più intensità già dal giugno 1944 quando fummo liberati, ma ci sembrò di vivere in un mondo nuovo e in più sicuri orizzonti col 25 aprile del 1945.
   Allora, accanto le une alle altre, vedevamo sventolare le bandiere dei nuovi partiti, le bandiere rosse, la bandiera bianca e le bandiere tricolori. Erano i simboli di nuove idee, di nuove speranze, di nuovi programmi, di nuovi ideali, del partito d’azione, del partito comunista, della democrazia cristiana, del partito socialista, del partito democratico del lavoro, del partito liberale, del partito repubblicano, ecc.
    Erano simboli, ideali, programmi che suscitavano tante speranze in noi più giovani, ma anche i primi contrasti tra chi sosteneva la preminenza del principio di libertà con la conservazione della vecchia struttura economica e chi invece sosteneva la preminenza della giustizia sociale,  con l’esigenza di riforme profonde per la costruzione di una società più equa.
   Io mi entusiasmavo per l’unione dei principi e degli ideali di giustizia e libertà che erano a fondamento del  Partito d’Azione, nato appunto dal movimento “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli, che l’avevano fondato a Parigi nel 1929 durante il loro l’esilio; il cui assunto era: non può esservi libertà senza giustizia sociale e non può esservi giustizia sociale senza la libertà.
  Nel corso di settant’anni, il principio di libertà che era stato nei nostri sogni è stato stravolto.  Le multinazionali, favorite dal progresso tecnologico, l’hanno manipolato col liberismo radicale fino a trasformare la libertà in permissivismo, senza più un concreto rispetto per le regole, inducendo la persona a vivere secondo parametri di un individualismo esasperato che ha allentato ogni legame di solidarietà, ha soffocato lo spirito di comunità, ha spinto al consumismo e sollecitato gli uni  all’indifferenza per gli altri.
  Nel corso di settant’anni il principio di giustizia sociale è stato eroso costantemente e progressivamente fino ad essere ridotto alla sola sua parvenza, nell’inconsistenza di una formula resa vuota perché privata di ogni concretezza. C’è oggi una divisione netta della società: da una parte stanno i grandi possessori di ricchezza finanziaria, dotati di ogni mezzo e di ogni possibilità di manovra sul campo economico e politico, dall’altra c’è la massa che tira a campare con i mezzi più scarsi e senza possibilità di scelte nella sua sfera di vita.
   Allora, nel solco della Resistenza e sugli ideali e le speranze del 25 aprile del 1945 furono poggiati  ben saldi e luminosi questi primi quattro articoli della Costituzione del 1948:
Art. 1 – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro….
Art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…….
Art. 3 –  E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che….impediscono il pieno sviluppo della persona umana…..
Art. 4 – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.
   Dopo settant’anni è inutile chiedersi se questi principi costituzionali siano concretamente applicati nella realtà sociale, giacché si possono vedere giovani che non trovano lavoro, uomini nel pieno delle capacità lavorative che hanno perso il lavoro, uomini finiti in condizioni di emarginazione dalla vita economica e sociale e con lesioni della dignità umana, cioè di quella dignità che è precipuamente tutelata dalla Carta Costituzionale.
    E allora è lecito chiedersi se ancora vi sono davvero i partiti di sinistra a difendere lo stato sociale, per cui essi si costituirono nella presa di coscienza dei diritti della persona, nelle lotte e nelle conquiste di quei diritti, che con la Resistenza furono poi sanciti nella nostra Carta Costituzionale. Dove sono finiti quei partiti e quelle bandiere e quegli ideali e quei programmi?
   Dopo settant’anni, ora che sono davvero vecchio, il minimo che posso dire è che sono profondamente  deluso; deluso per come è stata ridotta la libertà a licenza e deluso per come è stato eroso il senso di giustizia sociale, secondo il principio della competizione che inevitabilmente porta all’egoismo.
   Non avrei mai creduto di vivere  tanta delusione. E penso che i morti che si sono sacrificati per la realizzazione di quegli ideali siano morti davvero invano. Per pietà di loro non vorrei vedere più corone d’alloro sulle loro tombe.
   Non per quelle corone essi infatti lottarono, sostennero torture e sacrificarono la loro vita, ma per la realizzazione dei loro e nostri ideali, per la libertà e per la giustizia sociale delle nuove generazioni, per la tutela dei diritti e della dignità della persona di ogni ceto e di ogni nazione in ogni momento della storia.


giovedì 14 aprile 2016

                  2016:  il 25 APRILE DI UN  NOVANTENNE

    Il 25 aprile 1945 fu l’ultimo atto di una tragedia. Fu anche l’inizio di una speranza. Fu il nostro sogno di libertà e di giustizia sociale. Non solo il sogno della pace.
   Per noi del Lazio e di Roma  quel sogno era però cominciato già nel giugno dell’anno prima, quando i tedeschi e i fascisti si erano dovuti ritirare verso la Linea Gotica, tanto che a settembre io, appena diciottenne,  avevo già aperto nel mio paese la sezione del Partito d’Azione, leggevo L’Italia Libera, e seguivo con entusiasmo gli scritti e gli interventi di Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Fernando Schiavetti, Emilio Lussu, Aldo Garosci ed altri ancora.
  Qualche anno dopo, un compaesano iscritto al Partito d’Azione di Roma fece  commissariare la mia sezione per autorizzare l’iscrizione di una trentina di persone che non avevano niente a che vedere con gli ideali azionisti, anzi molti di essi li avevano ancora con quelli fascisti, con lo scopo di sottrarmi la rappresentanza in seno al Comitato locale della Resistenza, per  poter eleggere un sindaco di destra.
  Quella sera io piansi di nascosto. Piansi per il primo tradimento degli ideali della Resistenza, per il primo tradimento  verso i partigiani che si erano fatti  torturare e  trucidare per la libertà di tutti.
  Ma ne vivemmo subito altri di tradimenti, due ad opera del cosiddetto realismo di Togliatti; e tutti e due ferirono particolarmente noi del Partito d’Azione.
   Il primo di questi fu la concessione del condono per i delitti commessi dai fascisti, quando ancora ci offendevano i loro misfatti  e quando anche noi giovani prendevamo coscienza delle violenze che i fascisti avevano commesso durante tutto il ventennio.
   Il secondo tradimento fu l’approvazione dell’articolo sette della Costituzione. Esso non solo offendeva il nostro laicismo ma permetteva una pesante ingerenza nella nostra nascente Repubblica da parte della Chiesa, che aveva definito il Duce “uomo della provvidenza” e che per un ventennio era stata in connubio col fascismo.
   Mai o quasi mai nella storia si parla di tradimento. Eppure essa è intessuta di tradimenti. Intendo dire di tradimenti sociali e intellettuali. Non se ne parla perché sempre a subire quei tradimenti sono i popoli in generale, più in particolare sono le classi sociali subalterne o, per dirla papale papale, sono soprattutto i poveri,  anche  i poco agiati, ultimamente anche la classe media.
      Non occorre per questo riferirsi alla storia di Roma antica. E neanche a tutta la storia successiva. Basterebbe rifarsi alle guerre del Risorgimento e ai plebisciti condotti per censo, con le annessioni determinate ognuna da poche migliaia di ricchi e qualificate ancora oggi come votate  dal popolo. Come basterebbe rifarsi alle guerre coloniali e alla prima guerra mondiale, per constatare come sono state condotte apparentemente in nome e per interesse del popolo, ma effettivamente solo a danno del popolo.
  A me, che ho vissuto gli anni e gli ideali della Resistenza e che le speranze di noi giovani  mi parevano certezze fissate quasi in modo ferreo nelle parole e negli articoli della Costituzione, a me allora sarebbe sembrato davvero mostruoso immaginare che nei decenni successivi,  quegli stessi ideali, per cui tanti furono torturati e uccisi, sarebbero stati traditi nei fatti e in mille modi.
   Allora, quel giorno del 25 aprile del 1945, tutte le speranze di noi giovani sventolarono  come bandiere. Ora rabbrividisco. Molti nella Resistenza per gli ideali della giustizia e della libertà del popolo furono trucidati e ed erano morti con negli occhi la speranza: la speranza per i figli e per le generazioni future! La pace, il lavoro, la libertà, la giustizia sociale!
   Invece ancora oggi Papa Francesco deve gridare e condannare l’ideologia dello “scarto”, dello scarto dei più poveri, dello scarto degli emarginati. E io rabbrividisco per un mondo che vedo sempre più disumano. Rabbrividisco per i nostri ideali traditi.
   Erano spiriti eletti e provenivano dall’esilio e dalla lotta antifascista quelli che sancirono nella Costituzione “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Ed erano i morti delle lotte operaie e contadine lungo due secoli quelli che testimoniavano il diritto al lavoro, il diritto  alle otto ore giornaliere di lavoro, alle ferie e alla pensione, il diritto all’istruzione , alla salute.
  Poveri morti, che hanno buttato la loro vita ancor giovani per una speranza, per un’ideale, oggi morti inutilmente!
    Hanno un lavoro oggi i nostri giovani? Quante ore lavorano oggi i nostri giovani? Quelli che lavorano stanno con la paura di essere licenziati in ogni momento, in nome dell’iniziativa privata, della competizione, della concorrenza spietata, del mercato. Anche del mercato del lavoro. Perché l’uomo di nuovo è sul mercato. Di nuovo è fatto merce. Col rischio dello “scarto”!
    25 aprile 2016. Penso a tutti coloro che  sacrificarono la loro vita nelle carceri, nell’esilio, nelle forche, nelle sparatorie repressive, nelle fucilazioni. Inutilmente. Non pensavo di vivere da vecchio queste tremende delusioni. Non pensavo ancora di vivere queste ingiustizie. Non pensavo soprattutto di vivere questa tremenda assenza di ideali! E non pensavo di vivere questa insostenibile indifferenza degli uni per gli altri!


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lunedì 4 aprile 2016

                     IL NOSTRO NATALE NEGLI ANNI TRENTA

  Ricordo vagamente  il Natale dei miei anni da ragazzo. Ricordo quelli nelle scuole elementari, perché a noi alunni ci si chiedeva di portare muschio e qualche rametto di pungitopo con le bacche rosse attaccate ai loro cladodi. Per me era una disperazione, perché la mia campagna era tutta assolata e il muschio non riuscivo a trovarlo.
  Ricordo chiaramente che molti, specialmente le donne, andavano alla novena, soprattutto perché c’era qualche frate predicatore. La predica era qualche cosa d’importante, perché era fatta di racconti, di riferimenti, di parole che andavano a toccare gli animi e che incantavano gli ascoltatori. Quasi come in teatro. Che allora non c’era, perché non si respiravano iniziative culturali in quel tempo. E le novene e le prediche in chiesa forse erano il teatro dei poveri e della gente che neanche sapeva leggere un giornale. Insomma nelle sere d’inverno le prediche creavano un immaginario per la fantasia con la magia delle parole e scuotevano emotivamente la gente da quel torpore passivo di cui era fatta la rassegnazione alle disgrazie e alle cattive stagioni che tormentavano i contadini.
  Ricordo però anche i ciocchi nel focolare, la sera messi in un gran fuoco per  Gesù Bambino che scendeva dal camino a riscaldarsi. Si creava così un alone di magia così fascinoso che noi bambini ci credevamo davvero e restavamo in attesa della visione e del miracolo. Chissà se ci credevano anche le nostre mamme, le nostre zie e le nostre nonne riunite insieme e indaffarate per preparare mandorle e ciambelline?
  E ricordo la cena, i giochi e i racconti che avevano il tono delle favole, ma a volte anche di fatti che a noi piccoli incutevano terrore. Era una cena da vigilia, che però si allungava con frutta secca, specie con mandorle, perché mio padre aveva in coltura molti mandorli di diverse varietà. Lo scopo era quello di attendere la mezzanotte per la nascita del Bambinello.
   Per tirarla alla lunga c’erano il gioco della “pilocca” per i più piccoli, con gli spiccioli dentro e noi bendati col pestello in mano. Un gioco che durava  solo poche decine di minuti. Poi però c’erano i racconti, che duravano tanto, quando c’era chi sapeva raccontare.
    Ricordo che mio padre rimaneva estraneo a tutto, seduto al tavolo in mezzo a noi, perché era immerso nella lettura della Divina Commedia, tanto che bisognava chiamarlo per scuoterlo e fargli ascoltare ciò che si diceva in quel momento. Non ho mai capito come facesse ad estraniarsi da tutto quel chiacchiericcio, che lui non apprezzava affatto.
   Poi, dopo la scuola elementare, andavo con le pecore. E non c’erano più Natale né Pasqua, né Capodanno. Passavo le feste in campagna, poi la sera, anche a Natale e a Pasqua cominciai anch’io a leggere come mio padre, ma non sapevo concentrarmi se non c’era silenzio. Poi cominciai a studiare da solo e, allora, ero contento quando tutti andavano alle novene e io restavo da solo.
Studiavo e leggevo per ore ed ore. E non mi veniva sonno, anzi, per distrarmi qualche momento, mi divertivo a leggere certe pagine di un’antologia, specialmente qualche brano del Folengo, o mi mettevo a risolvere qualche problema di matematica come fosse un rebus o rompicapo.
  Ma  mi rammaricavo e mi angosciavo, quando sentivo gruppi di coetanei che si divertivano e cantavano in coro i canti popolari, passando anche sotto le finestre di casa mia. Avrei voluto essere con loro. Ma la mia determinazione per studiare era più forte.

   Mi sono rimasti dentro quei canti, assieme ai rammarichi e alle angosce nell’ essere inchiodato sui libri anche mentre mangiavo, tutte le sere, anche in quelle di festa. Volevo leggere e studiare ad ogni costo, sfruttando qualsiasi momento libero che mi potevo concedere. 

mercoledì 23 marzo 2016

                          ACQUA  E  IGIENE NEGLI ANNI TRENTA 

   Nel nostro paese eravamo fortunati per l’acqua. Allora, negli anni Trenta e Quaranta, non conoscevo le condizioni di altri luoghi e altre popolazioni per l’acqua corrente, ma forse pochi le avevano così floride.
   Noi invece avevamo cinque fontane da cui attingere acqua ed un lavatoio pubblico con tre vasche per insaponare i panni, ripassarli e risciacquarli. Nelle fontane c’era sempre un andirivieni di donne con le conche di rame piene sulla testa, che portavano acqua in casa.
   In casa il posto della conca con l’acqua era nell’acquaio, cioè “a ‘nnu sciacquaturu”. E nella conca, o appeso vicino, sul muro, c’era “u sotellu”, cioè il ramaiolo, con cui ognuno beveva a suo piacimento, senza bisogno di bicchieri.
  Si lesinava su tutto, anche perché c’era davvero poco. A cominciare dalla casa. I più poveri avevano un’unica stanza, la stessa per vivere, per mangiare, per dormire, anche con sette e otto figli. Ed allora di figli se ne facevano molti, a parte la “battaglia demografica” del Duce, e ne morivano anche tanti; una donna ne aveva avuti una ventina, ma gliene erano morti dodici o tredici. Quelli che stavano meglio avevano due stanze, di cui una usata per cucina e pranzo. Solo alcuni avevano più di due stanze per la propria abitazione.
   Comunque in nessuna casa c’era il bagno, cioè non c’era il cesso. Perché non c’era l’acqua corrente, anche se  nella parte nuova del paese c’erano gli scoli per l’acqua piovana. C’era invece un secchio sotto l’acquaio per la raccolta dell’acqua usata, che spesso veniva buttata per la strada. E c’erano invece i “rinali” sotto i letti, cioè i vasi da notte, e il bacile per lavarsi la faccia e le mani. Ma non tutti si lavavano. In verità molti letti erano fatti di tavole con sopra  pagliericci riempiti con le brattee del granturco. Il secchio sotto l’acquaio consentiva il recupero della sciacquatura dei piatti, che veniva riciclata per il beverone dei maiali, custoditi nei “fratticci”; erano molte le famiglie che allevavano un proprio maiale e lo custodivano in un proprio “fratticciu”.
  La pulizia personale era un bel problema, che però proprio non si poneva affatto come problema. Pareva del tutto naturale lavarsi solo la faccia e qualche volta, ma solo qualche volta, anche tutto il corpo, con la “bagnarola” in mezzo a una stanza.
  Che non fosse un problema era un’idea che veniva da lontano, forse dal medioevo. Forse da certe prediche, di cui ancora si sentiva l’eco.  Perché bisognava curarsi l’anima e non il corpo, che era fonte di peccato, specialmente se si faceva il bagno. Come anche era fonte di peccato il corpo delle donne, che andava coperto sino al capo, ornato con fazzoletti legati sotto al mento come ancora si vedono nei quadri delle Madonne, ed oggi anche in molte delle islamiche immigrate.
  Ricordo che un vecchio prete, verso il 1960, mi diceva che il sapone era uno strumento del diavolo. E ricordo un vecchio del mio paese che si vantava di lavarsi la faccia ogni settimana, perché gliela lavava il barbiere col pennello facendogli la barba.
    Ed erano normali i pidocchi delle bambine e le pulci e le cimici nei letti. Oggi sembra incredibile. Anzi penso che per i giovani di oggi queste cose siano proprio incredibili; e non possono immaginare di vedere  mamme spidocchiare i capelli delle figlie e schiacciare i pidocchi fra le unghie dei pollici anche nelle strade, come era comune allora e come era naturale per noi ragazzi.
   La pulizia personale non era un problema, come invece era per gli antichi romani, che non potevano vivere senza il bagno quotidiano. E come è per gli islamici, per i quali l’abluzione del corpo è purificazione rituale obbligatoria, sia nella forma di abluzione minore che in quella di abluzione maggiore, cioè con il bagno completo.
  C’era anche da noi una specie di “abluzione rituale”, ma riguardava la casa e si svolgeva con le cosiddette “pulizie” di Pasqua. Infatti a Pasqua le donne pulivano le case a fondo e le più giovani spiccavano i rami dalle pareti della cucina, li portavano nella strada vicino le fontane e li lucidavano con la pozzolana, sicché per asciugarli ne facevano spettacolo  per tutto il giorno, anche per mostrare una certa loro agiatezza nei confronti dei meno agiati e dei più poveri. Il mondo allora era fatto anche di queste miserie; ma in fondo oggi non è cambiato, perché si mostrano auto, orologi ed altro ancora con lo stesso sentimento d’allora per i rami.
  L’igiene però non riguardava solo strettamente le persone e specialmente i bambini mandati in giro a giocare per la strada col sederino nudo sotto gli abitini comuni sia per maschi che per le femminucce, per cui era normale che avessero le pancine infestate dai vermi e ne morissero tanti per le infezioni.
   L’igiene riguardava anche le bestie, cioè le galline, i somari, i cavalli, i buoi, ecc. custoditi nelle stalle accanto alle case, con il relativo letame e le mosche, i tafani ed anche le zecche e le pulci dei cani e dei gatti. Per questo di tanto in tanto usciva qualche ordinanza per l’ allontanamento delle bestie dalle case, ma restavano sempre disattese, proprio come le gride manzoniane. Anche quando furono costruiti nei “Carpini” le “cascine” per le vacche” e i “fratticci” per i porci, per qualche asino e per le galline. Fino a che sono venuti i trattori e sono scomparsi gli asini e i buoi e pure le galline.

   Però io non sono affatto convinto che le macchine siano più pulite delle bestie: certamente non sono ecologiche come gli animali.