OTTO
SETTEMBRE 1943
L’otto
settembre nel mio paese è la ricorrenza
della Madonna del Passo.
Quel giorno del 1943
io ero in campagna, ma credo che abbiano fatto solo la cerimonia in chiesa e
una mesta e piccola processione al mattino. Da un po’ di tempo non c’erano più
feste e si pregava forse solo perché finisse subito la guerra, non più per la
vittoria, come quando Mussolini dichiarò la guerra il dieci giugno 1940 e
quando voleva spezzare le reni alla Grecia. Ormai le avevamo noi le ossa spezzate,
anzi una parte ce le tenevano in mano gli Angloamericani, che avevano
conquistato parte del Mezzogiorno.
La sera di quell’otto settembre ancora faceva caldo, anche se c’era un po’ di
vento. E pareva una sera addormentata dentro una luce ormai fioca. Ma ci fu
un’esplosione di tripudio, quando la radio comunicò il proclama di Badoglio. Lo scampanio risuonava dentro le case e la
gente si riversò nelle strade in gruppi festosi.
Anche io uscii per la strada e per qualche
ora partecipai al tripudio; nei gesti e negli occhi della gente c’era allegria
per la fine della guerra e la speranza gioiosa di riabbracciare figli e
fratelli che sarebbero tornati sani e salvi dai lontani fronti di guerra.
Quando però tornai a casa per la cena, trovai
mio padre con la testa fra le mani e i
gomiti appoggiati sul tavolo, come di solito faceva nei momenti difficili; e
quando io dissi che fuori facevano festa, egli mormorò: Adesso comincerà la
guerra, e sarà tragica! Io allora rimasi di sasso, tra l’incredulo e il dubbioso.
La
mattina dopo, sul tardi, come al solito col mio somaro m’incamminai verso la
campagna, attraversando il paese lungo la provinciale, e subito incontrai una
lunga fila di centinaia e centinaia di soldati inquadrati che, sudati e stanchi,
marciavano in direzione di Tivoli. Erano reparti della divisione Re,
provenivano dalla Jugoslavia ed erano
scesi dal treno a Passo Corese; ricordo che portavano la cravatta rossa.
Proseguendo, all’altezza di Via Oberdan,
vidi molti soldati spianare improvvisamente i fucile in atto di sparare e molti
altri che sfilavano le bombe a mano per lanciarle dietro di me. Io mi volsi e
vidi che dalla direzione di Tivoli era giunta una camionetta con quattro
ufficiali tedeschi, mentre udivo il concitato ordine dei nostri ufficiali:
Ragazzi non sparate! Non sparate! Non abbiamo ordini, ragazzi non sparate! Vidi
che i nostri soldati abbassavano i fucili e rimettevano in tasca le bombe, poi
mi voltai e vidi i quattro ufficiali tedeschi, impassibili e rigidi come se
fossero di marmo, andare via incolumi verso Montelibretti sulla camionetta, che
si era arrestata.
Ripresi il cammino e, uscendo dall’abitato, udii
continui scoppi di bombe in direzione di Monterotondo, che mi si scopriva di
fronte, oltre le colline, in fondo alla valle del Tevere. Si vedeva anche il
fumo delle bombe ed avvertivo che quello non era un bombardamento, ma una vera
battaglia che si combatteva a pochi chilometri da noi.
Comunque per qualche giorno non sapemmo
niente di ciò che era avvenuto; lo sapemmo diversi giorni dopo, ma sempre
confusamente, perché le notizie ci giungevano per sentito dire. Sapemmo che c’era stata una
battaglia tra i nostri soldati e i paracadutisti tedeschi, cui avevano
partecipato anche i cittadini di Monterotondo, da sempre notoriamente
antifascisti.
Il giorno dopo, cioè il nove, vidi gli
stessi soldati della divisione Re, che tornavano indietro dalla strada di
Tivoli, questa volta non più inquadrati, ma a gruppi senz’ordine, tutti
senz’armi, molti con le divise in disordine, altri già vestiti in borghese, alcuni avevano un
asino e uno ci stava sopra a cavalcioni. Non parevano più soldati, ma giovani che camminavano a gruppi come se tornassero da una gita o da un pellegrinaggio,
perché i loro comandanti li avevano abbandonati senza ordini, senza un capo. Era
impossibile capire quello che stava accadendo.
Qualche giorno dopo cominciarono a tornare
anche i militari compaesani dislocati nelle varie città italiane. Giungevano
alla spicciolata, a piedi o con mezzi di fortuna, tutti però senza divisa
militare ma vestiti con abiti di fortuna, avuti cortesemente dalla gente dei vari luoghi
attraversati, per non essere presi dai tedeschi.
Un mio cugino, che aveva idee fasciste, si stava
rivolgendo in piazza verso alcuni di questi soldati, rimproverandoli del fatto
che abbandonavano il servizio, invece di combattere contro gli inglesi. Lo
sentì mio padre, che, irato, lo prese a schiaffi davanti a tutti.
Dopo
una settimana tornò anche mio fratello, del Sesto Bersaglieri di Bologna, che
con un viaggio fortunoso ebbe la possibilità di giungere a Monterotondo, dove
una parente che l’accolse gli parlò della battaglia di pochi giorni prima, e di
là a piedi e per strade di campagna, se ne tornò a casa.
Intanto, dopo due giorni dal proclama di
Badoglio mi pare, ci fu nel nostro territorio uno sciamare di prigionieri
inglesi del campo di Santa Maria di Montelibretti, sulla Salaria. Cercavano di
rifugiarsi sulle montagne o nascondersi nelle nostre campagne per sfuggire ai
rastrellamenti dei tedeschi.
Si stava avverando la previsione di mio
padre, ed io cercavo di capire perché stava avvenendo quel disastro. Col tempo e con le letture dei giornali, poi
mi sono sempre arrovellato sulla funzione di quei reparti della divisione Re,
richiamati dalla Jugoslavia ed avviati alla difesa della Tiburtina, dove
c’erano già schierate altre divisioni, come la Centauro, e dove sarebbe passata
la famiglia reale in fuga verso Brindisi.
E mi sono poi sempre chiesto come mai i
tedeschi non abbiano attaccato il re in fuga con i loro paracadutisti e i loro
aerei, come mai il re e i suoi generali abbiano lasciato senza ordini il nostro
esercito e come mai i tedeschi abbiano potuto prelevare il Duce dal Gran Sasso
senza dover combattere. Tutto questo è un mistero che non potrò conoscere, ma
che vorrei proprio conoscere. Anche se immagino cose non impossibili o anche
facilmente immaginabili, che però non si possono documentare.
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