lunedì 5 settembre 2016

                                   OTTO SETTEMBRE 1943

    L’otto settembre  nel mio paese è la ricorrenza della Madonna del Passo.
Quel giorno del 1943 io ero in campagna, ma credo che abbiano fatto solo la cerimonia in chiesa e una mesta e piccola processione al mattino. Da un po’ di tempo non c’erano più feste e si pregava forse solo perché finisse subito la guerra, non più per la vittoria, come quando Mussolini dichiarò la guerra il dieci giugno 1940 e quando voleva spezzare le reni alla Grecia. Ormai le avevamo noi le ossa spezzate, anzi una parte ce le tenevano in mano gli Angloamericani, che avevano conquistato parte del Mezzogiorno.
    La  sera di quell’otto settembre  ancora faceva caldo, anche se c’era un po’ di vento. E pareva una sera addormentata dentro una luce ormai fioca. Ma ci fu un’esplosione di tripudio, quando la radio comunicò il proclama di Badoglio.  Lo scampanio risuonava dentro le case e la gente si riversò nelle strade in gruppi festosi.
   Anche io uscii per la strada e per qualche ora partecipai al tripudio; nei gesti e negli occhi della gente c’era allegria per la fine della guerra e la speranza gioiosa di riabbracciare figli e fratelli che sarebbero tornati sani e salvi dai lontani fronti di guerra.
   Quando però tornai a casa per la cena, trovai mio padre con la testa  fra le mani e i gomiti appoggiati sul tavolo, come di solito faceva nei momenti difficili; e quando io dissi che fuori facevano festa, egli mormorò: Adesso comincerà la guerra, e sarà tragica! Io allora rimasi di sasso, tra l’incredulo e il dubbioso.
   La mattina dopo, sul tardi, come al solito col mio somaro m’incamminai verso la campagna, attraversando il paese lungo la provinciale, e subito incontrai una lunga fila di centinaia e centinaia di soldati inquadrati che, sudati e stanchi, marciavano in direzione di Tivoli. Erano reparti della divisione Re, provenivano  dalla Jugoslavia ed erano scesi dal treno a Passo Corese; ricordo che portavano la cravatta rossa.
   Proseguendo, all’altezza di Via Oberdan, vidi molti soldati spianare improvvisamente i fucile in atto di sparare e molti altri che sfilavano le bombe a mano per lanciarle dietro di me. Io mi volsi e vidi che dalla direzione di Tivoli era giunta una camionetta con quattro ufficiali tedeschi, mentre udivo il concitato ordine dei nostri ufficiali: Ragazzi non sparate! Non sparate! Non abbiamo ordini, ragazzi non sparate! Vidi che i nostri soldati abbassavano i fucili e rimettevano in tasca le bombe, poi mi voltai e vidi i quattro ufficiali tedeschi, impassibili e rigidi come se fossero di marmo, andare via incolumi verso Montelibretti sulla camionetta, che si era arrestata.
  Ripresi il cammino e, uscendo dall’abitato, udii continui scoppi di bombe in direzione di Monterotondo, che mi si scopriva di fronte, oltre le colline, in fondo alla valle del Tevere. Si vedeva anche il fumo delle bombe ed avvertivo che quello non era un bombardamento, ma una vera battaglia che si combatteva a pochi chilometri da noi.
   Comunque per qualche giorno non sapemmo niente di ciò che era avvenuto; lo sapemmo diversi giorni dopo, ma sempre confusamente, perché le notizie ci giungevano  per sentito dire. Sapemmo che c’era stata una battaglia tra i nostri soldati e i paracadutisti tedeschi, cui avevano partecipato anche i cittadini di Monterotondo, da sempre notoriamente antifascisti.
   Il giorno dopo, cioè il nove, vidi gli stessi soldati della divisione Re, che tornavano indietro dalla strada di Tivoli, questa volta non più inquadrati, ma a gruppi senz’ordine, tutti senz’armi, molti con le divise in disordine, altri  già vestiti in borghese, alcuni avevano un asino e uno ci stava sopra a cavalcioni. Non parevano più soldati, ma  giovani che camminavano a gruppi come se tornassero da una gita o da un pellegrinaggio, perché i loro comandanti li avevano abbandonati senza ordini, senza un capo. Era impossibile capire quello che stava accadendo.
  Qualche giorno dopo cominciarono a tornare anche i militari compaesani dislocati nelle varie città italiane. Giungevano alla spicciolata, a piedi o con mezzi di fortuna, tutti però senza divisa militare ma vestiti con abiti di fortuna,  avuti cortesemente dalla gente dei vari luoghi attraversati, per non essere presi dai tedeschi.
  Un mio cugino, che aveva idee fasciste, si stava rivolgendo in piazza verso alcuni di questi soldati, rimproverandoli del fatto che abbandonavano il servizio, invece di combattere contro gli inglesi. Lo sentì mio padre, che, irato, lo prese a schiaffi davanti a tutti.
   Dopo una settimana tornò anche mio fratello, del Sesto Bersaglieri di Bologna, che con un viaggio fortunoso ebbe la possibilità di giungere a Monterotondo, dove una parente che l’accolse gli parlò della battaglia di pochi giorni prima, e di là a piedi e per strade di campagna, se ne tornò a casa.  
   Intanto, dopo due giorni dal proclama di Badoglio mi pare, ci fu nel nostro territorio uno sciamare di prigionieri inglesi del campo di Santa Maria di Montelibretti, sulla Salaria. Cercavano di rifugiarsi sulle montagne o nascondersi nelle nostre campagne per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi.
   Si stava avverando la previsione di mio padre, ed io cercavo di capire perché stava avvenendo quel disastro.  Col tempo e con le letture dei giornali, poi mi sono sempre arrovellato sulla funzione di quei reparti della divisione Re, richiamati dalla Jugoslavia ed avviati alla difesa della Tiburtina, dove c’erano già schierate altre divisioni, come la Centauro, e dove sarebbe passata la famiglia reale in fuga verso Brindisi.
   E mi sono poi sempre chiesto come mai i tedeschi non abbiano attaccato il re in fuga con i loro paracadutisti e i loro aerei, come mai il re e i suoi generali abbiano lasciato senza ordini il nostro esercito e come mai i tedeschi abbiano potuto prelevare il Duce dal Gran Sasso senza dover combattere. Tutto questo è un mistero che non potrò conoscere, ma che vorrei proprio conoscere. Anche se immagino cose non impossibili o anche facilmente immaginabili, che però non si possono documentare.

  

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