lunedì 26 settembre 2016


Pubblico qui questa mia recentissima composizione

             VECCHIO
Ora, vecchio, mi affiorano di dentro
Figure amiche, antiche mie frequenze
Del tempo mio fanciullo e giovanile:
Vengono e vanno in brevi evanescenze
E tremolii di cuore,
Dentro un mondo ora dolce  ora amaro
Di presenze ed assenze,
Che stanno e ristanno
In un presente senza consistenze.


giovedì 15 settembre 2016

                         ACQUA E IGIENE NEGLI ANNI TRENTA

   Nel nostro paese eravamo fortunati per l’acqua. Sin dal Seicento i Borghese vi avevano costruito un centro di mulini e frantoi idraulici, captando l’acqua da una sorgente di Monte Gennaro mediante un condotto scoperto cui i paesani potevano attingere liberamente. Poi furono captate le acque  da Sant’Angelo e negli anni trenta avevamo cinque fontane da cui attingere acqua e un lavatoio con tre vasche per insaponare i panni, per ripassarli e risciacquarli.
   Nelle fontane c’era sempre un andirivieni di donne sulla, che portavano acqua in casa con le conche di rame sulla testa. Il posto della conca in casa era nell’acquaio, cioè a nnu sciacquaturu. E nella conca, o appeso alla parete, c’era u sotellu, cioè il ramaiolo, con cui ognuno beveva a suo piacimento attingendo dalla conca, senza bisogno di bicchieri.
   Meno che sull’acqua, si lesinava su tutto, anche perché c’era davvero poco. A cominciare dalla casa. I più poveri avevano un’unica stanza, la stessa per vivere, per mangiare, per dormire e per morire. Anche con sette o otto figli. Ed allora di figli se ne facevano molti, a parte la “battaglia demografica” del Duce, sia perché a non farli era peccato secondo il prete, sia perché erano una risorsa per la famiglia e per i vecchi (che allora non avevano la pensione) sia perché ne morivano anche tanti:  ad una mamma che ne aveva avuti una ventina ne erano rimasti appena sette.  I meno poveri, o che stavano un po’ meglio, avevano due stanze, una per cucinare e una per dormirvi tutti insieme. Solo alcuni avevano più di due stanze per la propria abitazione. Ecco perché durante tutta l’estate quasi tutti i maschi dormivano in campagna, nelle capanne di paglia o sotto gli alberi più folti per ripararsi dalla guazza.
   Comunque, a parte quelle di alcune famiglie, in nessuna altra casa c’era il bagno, cioè non c’era il cesso. Perché non c’era l’acqua corrente, non c’erano le fogne, anche se nella parte nuova del paese c’erano gli scoli per l’acqua piovana. Nelle cucine invece c’era un secchio posto sotto l’acquaio per la raccolta dell’ acqua usata, che spesso veniva buttata per la strada.
   D’altra parte, proprio perché mancavano i bagni, c’erano gli orinali (i rinali) sotto i letti, cioè i vasi da notte, e su trespoli in ferro i bacili per lavarsi le mani e la faccia al mattino. In verità molti letti erano fatti di tavole con sopra pagliericci imbottiti con brattee di granturco che fungevano da materassi.
   Il secchio sotto l’acquaio consentiva il recupero della sciacquatura dei piatti, che veniva riciclata per il beverone dei maiali, custoditi nei “fratticci” posti fuori dell’abitato, ma qualche volta anche nelle stalle poste sotto le case.
   La pulizia personale era davvero un bel problema, che però troppo spesso non si poneva affatto come un vero problema. Pareva del tutto naturale lavarsi solo la faccia e qualche volta, ma solo qualche volta, anche tutto il corpo, con la piccola bagnarola di latta posta in mezzo ad una stanza. Come non era affatto un problema per i maschi andare per i propri bisogni corporali appena fuori del paese, dietro un cespuglio o al riparo di qualche pietraia.
   Che la pulizia personale non fosse un problema era un’idea che veniva da lontano, forse dal medioevo. Forse da certe prediche di cui si sentiva ancora l’eco. Perché bisognava curarsi l’anima e non il corpo, che era fonte di peccato, specialmente se si faceva il bagno, in cui ci si prendeva cura delle parti intime. Come era anche fonte di peccato il corpo delle donne per diaboliche tentazioni, per cui andava coperto sino al capo per nascondere i sensuali capelli, con grandi fazzoletti  legati sotto al mento, come si vedono ancora in certi quadri di cose sacre, ed oggi ancora in molte donne islamiche immigrate.
   Ricordo che un vecchio prete, verso il 1960, mi diceva che il sapone e il bidé erano strumenti inventati per opera del diavolo. E ricordo che un vecchio del mio paese si vantava di lavarsi la faccia, ma solo la faccia, ogni settimana, perché gliela lavava il barbiere col pennello e il rasoio facendogli la barba.
   Ed erano normali i pidocchi delle bambine e le pulci e le cimici nei letti. Oggi sembra incredibile, dopo il DDT e altri insetticidi, ma specialmente per  la disponibilità dell’acqua nelle case. Anzi penso che per i giovani di oggi queste cose siano proprio incredibili; e che non possano immaginare di vedere mamme spidocchiare i capelli delle figlie e schiacciare i pidocchi fra le unghie dei pollici anche in mezzo alle strade, come era comune allora e come era naturale per noi ragazzi.
   La pulizia personale non era un problema, come invece era per gli antichi romani, che non potevano vivere senza il bagno quotidiano. E come è per gli islamici, per i quali l’abluzione del corpo è purificazione rituale obbligatoria, sia nella forma di abluzione minore che in  quella di abluzione  maggiore.
   C’era anche da noi una specie di abluzione rituale, ma riguardava la casa e si svolgeva  con le cosiddette pulizie di Pasqua. Allora, nei giorni precedenti la Pasqua, le donne pulivano la casa a fondo e le più giovani spiccavano gli utensili di rame dalle pareti delle cucine, li portavano vicino alle fontane e li lucidavano con la pozzolana, per farli brillare come nuovi, sicché, per asciugarli, ne facevano spettacolo per tutto il giorno, anche per dimostrare lo stato della propria agiatezza nei confronti dei meno agiati e dei più poveri.
   Il mondo allora era fatto anche di queste miserie; ma in fondo oggi non è molto cambiato, perché si mostrano auto più o meno potenti, orologi di pregio e altro con lo stesso intento d’allora.
   Il problema dell’igiene però non riguardava solo gli adulti, ma specialmente i bambini di due, tre, quattro anni che venivano lasciati a giocare per la strada polverosa col sederino nudo sotto gli abitini comuni ai maschi e alle femminucce, perché le mutandine si sarebbero dovute lavare ogni momento a causa dei loro bisognini fatti per la strada. E ciò era la causa di molte loro malattie intestinali e della morte di numerosi bambini.
   L’igiene dipendeva anche dalle bestie, cioè dalle galline, dai somari, dai buoi, dai cavalli, ecc. custoditi nelle stalle accanto alle case o che razzolavano liberamente per le strade, con il relativo letame  e con le mosche, le pulci e le zecche dei cani e dei gatti. Per questo di tanto in tanto veniva emessa qualche ordinanza per l’allontanamento delle bestie dall’abitato, ma restavano sempre disattese, proprio come le grida manzoniane, anche se quello era il tempo del fascismo, quello del credere obbedire e combattere. Ma il Duce allora aumentava le tasse a tutti per andare con la guerra a costruire le strade e le case agli abissini in Africa. Anzi chiedeva il dono delle fedi dei poveracci per le sue conquiste. E intanto da noi si seguitava a vivere nella miseria.

   Il problema dell’igiene durò anche dopo la guerra, fino a  quando vennero le macchine agricole che fecero scomparire gli animali: asini, buoi, cavalli e tutte le altre bestie. Però io non sono affatto convinto che le macchine siano più pulite delle bestie; certamente non sono ecologiche come gli animali, tanto che producono gas venefici, polveri sottili e rumori tremendi, non il nobile letame che nutre ogni pianta e ci dona ogni bendidio della natura.  

lunedì 5 settembre 2016

                                   OTTO SETTEMBRE 1943

    L’otto settembre  nel mio paese è la ricorrenza della Madonna del Passo.
Quel giorno del 1943 io ero in campagna, ma credo che abbiano fatto solo la cerimonia in chiesa e una mesta e piccola processione al mattino. Da un po’ di tempo non c’erano più feste e si pregava forse solo perché finisse subito la guerra, non più per la vittoria, come quando Mussolini dichiarò la guerra il dieci giugno 1940 e quando voleva spezzare le reni alla Grecia. Ormai le avevamo noi le ossa spezzate, anzi una parte ce le tenevano in mano gli Angloamericani, che avevano conquistato parte del Mezzogiorno.
    La  sera di quell’otto settembre  ancora faceva caldo, anche se c’era un po’ di vento. E pareva una sera addormentata dentro una luce ormai fioca. Ma ci fu un’esplosione di tripudio, quando la radio comunicò il proclama di Badoglio.  Lo scampanio risuonava dentro le case e la gente si riversò nelle strade in gruppi festosi.
   Anche io uscii per la strada e per qualche ora partecipai al tripudio; nei gesti e negli occhi della gente c’era allegria per la fine della guerra e la speranza gioiosa di riabbracciare figli e fratelli che sarebbero tornati sani e salvi dai lontani fronti di guerra.
   Quando però tornai a casa per la cena, trovai mio padre con la testa  fra le mani e i gomiti appoggiati sul tavolo, come di solito faceva nei momenti difficili; e quando io dissi che fuori facevano festa, egli mormorò: Adesso comincerà la guerra, e sarà tragica! Io allora rimasi di sasso, tra l’incredulo e il dubbioso.
   La mattina dopo, sul tardi, come al solito col mio somaro m’incamminai verso la campagna, attraversando il paese lungo la provinciale, e subito incontrai una lunga fila di centinaia e centinaia di soldati inquadrati che, sudati e stanchi, marciavano in direzione di Tivoli. Erano reparti della divisione Re, provenivano  dalla Jugoslavia ed erano scesi dal treno a Passo Corese; ricordo che portavano la cravatta rossa.
   Proseguendo, all’altezza di Via Oberdan, vidi molti soldati spianare improvvisamente i fucile in atto di sparare e molti altri che sfilavano le bombe a mano per lanciarle dietro di me. Io mi volsi e vidi che dalla direzione di Tivoli era giunta una camionetta con quattro ufficiali tedeschi, mentre udivo il concitato ordine dei nostri ufficiali: Ragazzi non sparate! Non sparate! Non abbiamo ordini, ragazzi non sparate! Vidi che i nostri soldati abbassavano i fucili e rimettevano in tasca le bombe, poi mi voltai e vidi i quattro ufficiali tedeschi, impassibili e rigidi come se fossero di marmo, andare via incolumi verso Montelibretti sulla camionetta, che si era arrestata.
  Ripresi il cammino e, uscendo dall’abitato, udii continui scoppi di bombe in direzione di Monterotondo, che mi si scopriva di fronte, oltre le colline, in fondo alla valle del Tevere. Si vedeva anche il fumo delle bombe ed avvertivo che quello non era un bombardamento, ma una vera battaglia che si combatteva a pochi chilometri da noi.
   Comunque per qualche giorno non sapemmo niente di ciò che era avvenuto; lo sapemmo diversi giorni dopo, ma sempre confusamente, perché le notizie ci giungevano  per sentito dire. Sapemmo che c’era stata una battaglia tra i nostri soldati e i paracadutisti tedeschi, cui avevano partecipato anche i cittadini di Monterotondo, da sempre notoriamente antifascisti.
   Il giorno dopo, cioè il nove, vidi gli stessi soldati della divisione Re, che tornavano indietro dalla strada di Tivoli, questa volta non più inquadrati, ma a gruppi senz’ordine, tutti senz’armi, molti con le divise in disordine, altri  già vestiti in borghese, alcuni avevano un asino e uno ci stava sopra a cavalcioni. Non parevano più soldati, ma  giovani che camminavano a gruppi come se tornassero da una gita o da un pellegrinaggio, perché i loro comandanti li avevano abbandonati senza ordini, senza un capo. Era impossibile capire quello che stava accadendo.
  Qualche giorno dopo cominciarono a tornare anche i militari compaesani dislocati nelle varie città italiane. Giungevano alla spicciolata, a piedi o con mezzi di fortuna, tutti però senza divisa militare ma vestiti con abiti di fortuna,  avuti cortesemente dalla gente dei vari luoghi attraversati, per non essere presi dai tedeschi.
  Un mio cugino, che aveva idee fasciste, si stava rivolgendo in piazza verso alcuni di questi soldati, rimproverandoli del fatto che abbandonavano il servizio, invece di combattere contro gli inglesi. Lo sentì mio padre, che, irato, lo prese a schiaffi davanti a tutti.
   Dopo una settimana tornò anche mio fratello, del Sesto Bersaglieri di Bologna, che con un viaggio fortunoso ebbe la possibilità di giungere a Monterotondo, dove una parente che l’accolse gli parlò della battaglia di pochi giorni prima, e di là a piedi e per strade di campagna, se ne tornò a casa.  
   Intanto, dopo due giorni dal proclama di Badoglio mi pare, ci fu nel nostro territorio uno sciamare di prigionieri inglesi del campo di Santa Maria di Montelibretti, sulla Salaria. Cercavano di rifugiarsi sulle montagne o nascondersi nelle nostre campagne per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi.
   Si stava avverando la previsione di mio padre, ed io cercavo di capire perché stava avvenendo quel disastro.  Col tempo e con le letture dei giornali, poi mi sono sempre arrovellato sulla funzione di quei reparti della divisione Re, richiamati dalla Jugoslavia ed avviati alla difesa della Tiburtina, dove c’erano già schierate altre divisioni, come la Centauro, e dove sarebbe passata la famiglia reale in fuga verso Brindisi.
   E mi sono poi sempre chiesto come mai i tedeschi non abbiano attaccato il re in fuga con i loro paracadutisti e i loro aerei, come mai il re e i suoi generali abbiano lasciato senza ordini il nostro esercito e come mai i tedeschi abbiano potuto prelevare il Duce dal Gran Sasso senza dover combattere. Tutto questo è un mistero che non potrò conoscere, ma che vorrei proprio conoscere. Anche se immagino cose non impossibili o anche facilmente immaginabili, che però non si possono documentare.