venerdì 31 luglio 2015

            FRUTTA  E… TECNICA
   Sono stato al mercatino dei coltivatori. Ora ho sul tavolo alcuni cestini di frutta raccolta a pochi chilometri dal luogo di consumo. Frutta di colori vivi e morbidi, soprattutto di aromi sottili come li sentivo nel mio campo, quando coglievo le pesche vellutate quali il Trionfo, innestate da mio padre su portainnesti di mandorli.
   Colori, sapori, morbidezza, aromi che mi richiamano sensazioni e che mi offrono motivi per considerazioni, raffronti, sentimenti, idee, tutti insieme confusi nell’animo, ma progressivamente sempre chiari nella mente.
   Altri tempi, altre stagioni, ma soprattutto altri mesi. Già, altri mesi. Ricordo che quando fu proclamata la Repubblica, noi cogliemmo gli ultimi quintali di cerase, che dal campo io riportai con i bigonci caricati sull’asino in paese, per essere vendute ai bagarini, che nella notte le avrebbero portate a vendere a Roma con i carretti. Erano gli ultimi quintali di “Ravenne tardive”, giacché le altre varietà precoci erano state raccolte giorni prima.
  Ricordo che in uno degli anni Sessanta, mia madre mi lasciò una pianta intera carica di cerase “Ravenna tardive” nell’ultima settimana di giugno, quando la raccolta era stata già termina almeno da quindici giorni, perché io ne potessi mangiare, tornando in vacanza nel mio paese; molte erano cadute per eccessiva maturazione, ma molte altre io e mia moglie le mangiammo dolcissime e fragranti.
   Altre stagioni, altre varietà. E oggi, ventisette luglio, ho davanti a me le cerase: le “Ferrovia”, i “Duroni”, ecc. Qualche anno fa, a Ravenna, ebbi un soprassalto, quando al mercatino dei coltivatori vidi in vendita, ad agosto inoltrato, sportine di albicocche freschissime. Strano. Quando facevo il contadino, le albicocche si raccoglievano a giugno e ai primi di luglio, se non sbaglio.
   Strano! Ma oggi niente è più strano. Non basta la globalizzazione dei mercati. Interviene nell’agricoltura la biotecnologia. Ricordo che i carciofi allora si raccoglievano a maggio tra i filari delle vigne, saporitissimi e profumati di sole, ma ora si raccolgono a febbraio, teneri e grossi quasi come meloncini, ma scialbi. Ricordo che l’uva si cominciava a mangiare nel mese di settembre, ma ora già si vede sul mercato a luglio e abbiamo i pomodori tutto l’anno fatti crescere e maturare nelle serre al calore delle fiammelle di gas.
   Ricordo che mio padre ricorreva agli innesti per avere varietà di frutti più belli, più buoni e più redditizi. Ora con le nuove tecniche gli agricoltori ottengono pesche colorite, rosse già allo stato acerbo, sicché quando si comprano, invece di mangiarle, ci si potrebbe giocare alle bocce. I mercati hanno rifiutato varietà di pesche profumate e meravigliose a causa della delicatezza della buccia, soggetta a facili ammaccature; le hanno sostituite con varietà la cui buccia sembra cuoio al morso e alla masticazione. Io che ero abituato a mangiare ogni frutta con la buccia, appena staccata dai rami, non ne posso più di queste bucce coriacee che non riesco a deglutire. 
   D’altra parte gli acquirenti, generalmente, non chiedono più l’acquisto di varietà specifiche di questa o quella frutta, tanto che spesso indicano ogni frutto  solo col suo nome generico: la pesca (non la pesca Nettarina o la pesca Uccello Rosso) la ciliegia (non la ciliegia Ravenna o Vignola) la mela (non la mela Rosa o Limoncella o Deliziosa).  Hanno perso il gusto delle particolarità del frutto con piccoli difetti ma esposto al sole e ricco di sapori, per cui richiedono invece frutti con belle forme e colori vistosi, frutti levigati come gli oggetti usciti dalle fabbriche, perché ormai hanno perso il piacere delle particolarità ed anche delle imperfezioni della natura, e sono attratti dalla regolarità artefatta delle cose uscite di fabbrica, tutte della stessa grandezza, tutte della stessa forma e colore, come se fossero palline colorate o tappi o bottiglie anziché cose naturali da mangiare.

  Comunque questo non pare un problema, poiché l’aspetto economico è quello più importante per chi vende e per chi acquista. Dietro l’aspetto economico ci sono altri aspetti non meno importanti nella dimensione culturale; ma di questa dimensione in un mondo materialista e massificato pare che a nessuno realmente interessi.

sabato 11 luglio 2015


            SCUOLA E…SCUOLA DI MASSA
    C’erano scuole elementari quasi dovunque allora, negli anni Trenta e Quaranta, quando io ero ancora ragazzo e  poi ventenne. Ma nel mio paese c’erano solo scuole elementari. Per il ginnasio e altre scuole bisognava recarsi ad almeno venticinque chilometri, con l’autobus che partiva al mattino presto e poi tornava la sera tardi, oppure con un carretto o una bicicletta.
   Studiavano solo alcuni agiati in pensionati familiari; e solo qualcuno arrivava alla laurea. Alcuni fingevano di avere la vocazione religiosa per studiare nei conventi, conseguire un diploma, una carta su cui contare per un mestiere comodo e poi buttare la tonaca.
   Tra i molti che non potevano proseguire la frequenza scolastica, solo chi aveva sete di sapere leggeva libri. Io che non avevo potuto studiare mettevo anche un solo soldo da parte per comprarmi dei libri. Finita la guerra, poi, con i partiti di sinistra noi ci nutrivamo di ideali di libertà e di giustizia, di uguaglianza sociale. Aspiravamo alla frequenza della scuola, perché volevamo il diritto all’istruzione per tutti.  E la scuola e l’università davvero furono date a tutti. In seguito furono date a tutti anche le biblioteche comunali.
   Ma poi le scuole e le università diventarono solo scuole e università di massa; e le biblioteche si rivelarono solo come fonti d’affari per librai ed editori. Infatti chi ha sete di sapere i libri se li compra da sé, con sacrifici, li vuole disponibili e li custodisce in casa, perché ha bisogno di strutturare le proprie conoscenze e il proprio sapere con i libri a portata di mano, sentiti come fonte di colloqui, di ricerche, di riflessioni e di confronti.
   Oggi possiamo osservare che l’università di massa nonha sfornato solo le eccellenze del sapere ma anche una torma di mediocri, aggrappati al solo valore dei titoli, cioè ad una carta attestante un certo grado di conoscenze, utile per  incorniciarla a un parete e per ottenere un posto nel lavoro. E sono questi mediocri che guardano dall’alto in basso i non laureati, ritenendosi essi posti un grandino più su degli altri nella scala sociale più che in quella del sapere.
    Li ho notati specialmente dentro la piccola burocrazia di provincia, ma non solo, sempre pronti alla domanda: Ma quello è laureato? Già perché essi dividono il mondo nelle due categorie di laureati e non laureati. Pronti ad un sorrisino di compiacimento quando vengono a sapere che qualcuno non ha una laurea.
   Guardano sempre dall’alto in basso i non laureati. Risibili. Non sanno essi, i mediocri, che la scuola e l’università lasciano l’intelligenza di ciascuno per quella che ci è data dalla natura e non l’aumentano di un ette. Non sanno i mediocri che Serao, Mussolini, Sciascia, Mastronardi e tanti altri personaggi erano semplici maestri elementari; che Montale (premio Nobel) era solo un ragioniere, che Quasimodo (premio Nobel) era solo un geometra, che Emilio Salgari aveva solo frequentato un istituto nautico, che D’Annunzio e Croce non erano laureati, che Grazia Deledda (premio Nobel), Trilussa, Franklin, Edison e Marconi erano solo autodidatti ( e questo solo per nominarne alcuni).
    Così il problema della scuola e dell’università di massa diventa un problema grande “come una casa”. Con la conseguente domanda: a che serve l’università se dopo la laurea c’è il rischio del semianalfabetismo di ritorno? Lo dicono De Mauro e tanti altri professori universitari: molti dopo alcuni anni dalla laurea non riescono più a interpretare neanche un articolo.
   Forse occorrerebbe selezionare meglio e pagare molto di più gli insegnanti che nelle scuole, sin da quelle primarie, provvedano veramente ad educare i giovani all’amore per la conoscenza in sé e per sé (dice il Poeta: “Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza” Inferno- Canto XXVI). E se ciò non fosse possibile, bisognerebbe creare difficoltà di frequenza a coloro che perseguono solo lo scopo di acquisire comunque un pezzo di carta per esercitare un mestiere; perlomeno bisognerebbe tenere comunque lontani dall’insegnamento nelle scuole questi mestieranti   mediocri. 
   Si capisce, lo dico per paradosso. D'altra parte che cosa ci si può aspettare da coloro che, non avendone una propria, si rivestono di una personalità presa in prestito da un abito, da una divisa, da un ruolo, da un titolo? Come non ci si può nobilitare con la semplice acquisizione di un titolo nobiliare così non ci si può nobilitare col conseguimento di una semplice laurea! 
   Lo dico anche con amarezza, nel vedere a che cosa si riduce il sapere in una civiltà di massa, a che cosa si riduce l’uomo quando è messo nelle condizioni di divenire solo uno strumento dello sviluppo tecnologico  e del processo di massificazione culturale.