domenica 20 dicembre 2015

                      1943: NATALE PRIGIONIERI E CANNOLI

   Natale 1943. Notte santa.  E santa incoscienza. Non mia soltanto, che avevo allora appena compiuto diciassette anni. Ma dei grandi, di quelli che cominciavano ad avere i capelli bianchi e che avrebbero dovuto avere più prudenza. Che non l’ebbero non per superficialità, ma per profonda umanità, per solidarietà umana; nella brama della liberazione dai tedeschi e dalla guerra, quando c’era la resistenza.
  Eravamo a casa di zia Santa. Fuori c’era soltanto l’oscurità del coprifuoco, in cui incombevano i passi minacciosi dei tedeschi, che erano di stanza nel nostro paese. Ci stavano per gestire un centro di rifornimento di munizioni per il fronte di Cassino, ma anche per rastrellare i prigionieri alleati liberati l’otto settembre dal campo di concentramento di Santa Maria, molti dei quali s’erano rifugiati nelle campagne, in nascondigli procurati e protetti da molti compaesani.
  Nella santa incoscienza di quella sera, facevamo festa intorno al focolare, in cui ardevano due o tre ciocchi. In verità non c’era molto per festeggiare, forse non avevamo neanche il sale, che scarseggiava e che a volte si comprava nero dai tabaccai. Volevamo però far vivere il Natale anche a due prigionieri quasi come se fossero a casa loro. Davvero un sentimento di solidarietà umana verso quelli che ancora pochi mesi prima erano nostri nemici e nostri prigionieri. Ma ora erano perseguiti come noi, ben più di noi, lontani dalle loro terre e dalle loro famiglie.
   La sera di Natale eravamo tra parenti.  Ci fu più allegria, quando i due prigionieri furono fatti entrare silenziosamente e con molta prudenza, guardinghi. Ma con loro ci s’intendeva solo a gesti; e col senso di cordialità negli occhi.  Ed essi sprizzavano gioia  nel vivere un momento di convivialità e di calore umano. Non era tanto il valore del mangiare a tavola, che essi non avevano più provato da parecchio, forse da anni, quanto il sentirsi accolti in famiglia.
   Poi venne Michele, un pasticciere siciliano, che da Roma si era rifugiato in paese, presso zi’ Romoletto, perché comunista anche lui. Anzi zi’ Romolo e Michele avevano collegamenti con i comunisti e con la resistenza, tanto che un giorno ospitarono un capo dei partigiani, un sudafricano venuto in incognito; lo ricordo perché era basso e vestito con un maglione scuro.
   Quel Natale, Michele si era fatto dare da mia madre una grossa ricotta di pecora ed ora portava un grosso vassoio di cannoli siciliani. In tanta carestia, quei cannoli apparvero come brillanti in un’oreficeria: sembrava che squillassero di luce dappertutto, anche se poi era il loro profumo che inondava di più la stanza. Nessuno di noi aveva mai mangiato un cannolo, neanche mai visto;  tantomeno l’avevano visto i prigionieri, che non ricordo di quale nazione fossero.
  Quando li assaggiarono, i prigionieri si misero a ballare, ridevano, scoppiavano di gioia. Per loro divenne un rito: davano una leccatina al loro cannolo, poi lo deponevano sulla mensola del camino come si depone un santino, come qualche cosa di sacro. Tornavano a saltellare di gioia, poi di nuovo davano una leccatina al cannolo, spalancavano gli occhi per il piacere e poi tornavano a deporlo sulla mensola, così per qualche tempo. Fu un Natale meraviglioso. Anche per la convivialità con i prigionieri. Ma anche per i cannoli.
   Non ho più dimenticato quel Natale. Ma non ho più dimenticato il piacere di quei cannoli. Non ne ho mangiati mai più di così buoni, anzi quando ne mangio ne rimango sempre deluso.

                                                  

martedì 8 dicembre 2015

                                IL SABATO FASCISTA

  E’facile dimenticare. Più facile del ricordare. Forse anche più importante. Comunque, quando ritornano in mente fatti e misfatti significativi, non bisogna dimenticare, ma occorre sottolinearne e rafforzarne la memoria.
  Per questo io non dimentico i racconti che facevano i reduci della prima e della seconda guerra mondiale. Non dimentico neanche certe scene del tempo fascista, che io ho vissuto. Scene di indottrinamento e di educazione alla guerra. O, meglio, di educazione alla morte, come diceva il filosofo Maritain nel suo “Umanesimo integrale” e anche nel suo “Educazione al bivio” scritti intorno al 1935.
   Soprattutto educazione ad uniformare  la personalità  dei giovani alla volontà del partito fascista e del suo capo. Il simbolo di questa educazione “uniformatrice” era proprio l’uniforme, cioè la divisa: di Figlio della Lupa, di Balilla, di Avanguardista, ecc. Assieme all’uniforme altre cosette, come il distintivo, il gagliardetto, gli inni  e soprattutto il moschetto, cioè il modello ridotto del ’91 (per esattezza del 1891).
  Io ero ancora un quattordicenne, quando vedevo mio fratello diciottenne all’istruzione premilitare insieme ai suoi coetanei nella piazza davanti al municipio. Imparavano a marciare, ad ubbidire ai comandi di qualche tenente che si trovava per caso in licenza.
   L’istruzione premilitare era diventata obbligatoria con una legge del 1934 che istituiva il sabato fascista ad imitazione del sabato inglese. Il sabato inglese però riguardava solo la riduzione  del lavoro a metà giornata, invece il sabato fascista destinava quella metà giornata all’indottrinamento attraverso le attività cosiddette culturali e ricreative e, per i giovani da diciotto a venti anni, anche al servizio premilitare.
  E’ vero che era stato istituito anche il Dopolavoro in ogni abitato e dove possibile, in cui ci si poteva ritrovare e giocare a biliardo, ma sempre come  istituzione strumentale del partito, finalizzata sempre al “credere obbedire combattere”, cioè alla rinuncia della propria personale autonomia di giudizio, perché a pensare e a decidere doveva essere solo il capo, secondo l’ordine  gerarchico fascista. E a pensare con la propria testa poteva essere pericoloso.
  Infatti una sera, dopo che eravamo tornati dalla campagna e mentre eravamo a cena, venne a casa un cugino di mio padre. Non che quello fosse un vero fascista, ma praticava i fascisti locali. Venne  come latore di un avvertimento discreto, suggerito sottovoce a mio padre. Un avvertimento che voleva essere una minaccia e che allarmò vivamente mio padre e mia madre. La minaccia era quella di proporre mio fratello per l’esilio solo se ancora una volta si fosse espresso in quel modo.
    Infatti mio fratello, oltre a sentire i commenti  espressi in famiglia da mio padre in modo assai guardingo e riservato, leggeva il giornale tutti i giorni e spesso, la sera, andava a sentire radio Londra e radio Mosca segretamente presso un capo manipolo fascista che teneva l’ufficio di collocamento, e ci portava anche me.
   Ed era successo che durante il servizio premilitare, mio fratello aveva espresso un giudizio pessimista sulla nostra vittoria nella guerra appena cominciata, si era nel 1940, con gli altri commilitoni. E qualche spione, di quelli che non mancano mai, era andato a riferirlo al segretario del fascio. Di qui la minaccia che fece tremare i miei genitori quella sera, con tutte le raccomandazioni che ne conseguirono per mio fratello, ed anche per noi perché fossimo molto più riservati fuori di casa.  


mercoledì 18 novembre 2015

Pubblico qui di seguito la copertina e la PREMESSA del mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI  EDITO da SIMPLE 



                        PREMESSA

  Ho indicato con “Bigliettini” le mie composizioni più brevi e con “Biglietti” quelle un po’ più lunghe, senza però distinguerle e separarle in capitoli diversi.
  Poiché sono tutte di carattere satirico, in altro tempo le avrei dette classicamente “epigrammi”. Proprio come oltre un ventennio fa, quando ne stampai una trentina, in pochissime copie per gli amici, con il titolo di “Trenta epigrammi”.
  A leggerli allora furono davvero  pochi amici, anche perché ancora non si era diffusa Internet. Ma cambia il tempo e con esso mutano gusti e parole, anche se molte cose poi rimangono sostanzialmente le stesse.            Così oggi ho voluto chiamarli “Biglietti e bigliettini” per significare metaforicamente quegli stessi  modi poetici  storicamente definiti come epigrammi.  Senza presumere avvicinamenti a modelli classici forse inarrivabili.
   Qui mi pare anche opportuno  notare, però,  che col tempo sono caduti in disuso diversi generi di poesia, con vari suoi modi compositivi; e sono venute anche meno alcune funzioni della poesia stessa.  Certamente  per mutamenti di sensibilità culturali conseguenti al cambiamento di strumenti e codici comunicativi nel mondo contemporaneo.
   Ha scritto McLuhan che il mezzo è il messaggio. Oggi le nostre sensibilità non corrispondono più ai
mezzi d’informazione, della scrittura e della poesia dei secoli scorsi. Non utilizziamo più solo il linguaggio della parola scritta. Si ricorre spesso all’efficacia del linguaggio iconico; anzi  siamo oltre la fotografia e la cinematografia del passato, siamo ai linguaggi delle tecnologie in cui sono comprese la video scrittura e la memoria digitale.
   Quale funzione può ancora oggi svolgere la poesia in un mondo caratterizzato da così rapidi cambiamenti, da linguaggi e codici così diversi da quelli del passato, specialmente dentro al mondo digitale, iconico, tecnologico?
   Il nostro è il più antipoetico dei tempi, oltre che per l’ansia della velocità dei cambiamenti,  anche perché esso è il tempo del denaro. Il poeta rischia di chiudersi nell’ascolto della sua sola interiorità e la poesia rischia di autolimitarsi alla lirica. La satira stessa oggi è confinata nelle  battute e nelle macchiette degli spettacoli,  nelle vignette dei giornali.
   Eppure non tutti dovremmo rinunciare alla satira poetica. Essa costituisce un modo espressivo che può avere ancora un suo valore, poiché nei momenti di sosta, di raccoglimento e di riflessione ci può consentire ancora una forma di autonomia di giudizio a fronte della piatta banalità del conformismo; e ci può consentire un rovesciamento dello sguardo sul mondo ancora con la forza e la speranza proprie dello spirito critico e libero dell’uomo.
   Con queste mie composizioni io non vi ho rinunciato; anzi in esse ho raccolto  l’espressione di sentimenti elaborati in rapporto ad esperienze di vita colte direttamente e indirettamente nel quotidiano del nostro tempo, tra rabbia, amarezza, sarcasmo.
   Sono composizioni in versi che ho scritto nel corso di alcuni decenni e che ho qui messo insieme in modo alquanto casuale, non avendo neanche tenuto conto né di datarle, né di disporle in ordine cronologico: soggettivamente il lettore può riferirle al tempo che gli suggerisce la sua personale sensibilità.
   Le pubblico tutte oggi in quanto la spesa editoriale non rappresenta più un sacrificio economico. Ma penso che a leggerle saranno ugualmente assai pochi.    
   Forse  anche perché oggi le composizioni satiriche non sembrano ritenute classificabili come poesia, così come lo erano ancora un secolo fa, poiché non rientrano nelle caratteristiche delimitate da un lirismo introspettivo esasperato, secondo le ultime tendenze , quasi direi secondo la “moda” di oggi.
   Forse anche perché esse non rispondono ai canoni dei gusti correnti, più proclivi alle vignette degli umoristi e alle battute dei comici, così rapide e incisive al confronto di composizioni poetiche che pur sempre richiedono  una certa riflessione per la piena comprensione del testo.
   Forse anche perché siamo in tanti a scrivere (penso che ciò sia un bene) e non molti a leggere, tra cui un certo numero solo lettori di noi stessi autori (e penso che questo sia un male).
   Lo scarso numero dei miei eventuali lettori mi consentirà di non sentirmi in colpa per averne infastiditi molti, sia per  non averlo fatto apposta, giacché questi versi  mi sono venuti da sé, per mio personale sfogo dell’animo, pur avendo io tentato di lavorarci su di lima; sia perché  io non ho spedito di fatto alcun bigliettino o biglietto a nessuno.
   Se qualcuno li leggerà sarà forse solo per puro caso e comunque per sua scelta, giacché non andrò a mostrare me e il mio libretto in una qualsiasi televisione per farmelo comprare.
   E se qualcuno li apprezzasse, in tutto o anche soltanto  in parte,  sento che in qualche modo ne sarei sinceramente compiaciuto e gratificato.                                                                                                                                                                                                           
                                            









martedì 6 ottobre 2015

                     LE  MANIFESTAZIONI  PER  LA VISITA DI HITLER

  Quando doveva arrivare Hitler a Roma, si diffuse nel mio paese molto entusiasmo fra i fascisti, ma anche qualche timore fra coloro che fascisti non erano, e anche qualche sordo risentimento fra coloro che avevano combattuto nel  ’15 – ’18, cioè quelli che io sentivo ancora raccontare nelle barberie la vita in trincea e le battaglie della Conca di Plezzo, del Monte Nero, di Caporetto e del Piave.
   L’entusiasmo era sollecitato dalla propaganda radiofonica e da quella sui giornali con  titoloni a otto colonne, che gridavano l’annuncio dell’arrivo del grande Alleato dell’Italia, quasi si fosse in attesa dell’arrivo di un messia.
   Ricordo che i fascisti locali, specialmente il segretario e i componenti del direttorio del fascio, si davano un gran daffare per organizzare la partecipazione delle camicie nere e delle donne in costume alla manifestazione a Roma  in onore del Fuhrer.
   Molte erano le donne in subbuglio, non perché animate dallo spirito fascista, ma perché solleticate dal poter apparire vestite nei costumi ottocenteschi del nostro paese, così ricchi di motivi ornamentali e di colori sgargianti. Alcune vennero anche da mia nonna materna per avere un lussuoso vestito in raso, che essa custodiva gelosamente in una cassa di legno.
   La mattina in cui ci doveva essere la manifestazione a Roma, ci fu una grande adunata in piazza, sia delle camicie nere e delle giovani italiane, tutti in divisa, sia delle donne, tutte  in costume. Partirono tutti in un tripudio di inni, di gagliardetti, di entusiasmi, mi pare su dei camion, se ricordo bene.
   La sera, quando tornarono, nel paese sembrava festa; ma a casa mio padre andava dicendo: E’ tutta una carnevalata! E’ tutta una carnevalata! Ed io mi sentivo in disagio per questo, perché mi piaceva la gente in tripudio e non capivo perché in mio padre ci fosse quella sorda disapprovazione; ed ero disorientato nei sentimenti da seguire.
   Ero ragazzo,  non potevo capire i giudizi negativi espressi nascostamente da mio padre, come dopo qualche giorno non potevo capire quando si mormorò che due giorni prima dell’arrivo di Hitler erano stati messi provvisoriamente in carcere alcuni vecchi comunisti di Monterotondo, per prevenire qualche loro manifestazione o attentato nella stazione. Rimanevo interdetto, perché io  ero troppo ragazzo per sapere che il popolo di Monterotondo era irriducibilmente antifascista, anche allora che il Duce poteva vantare il trionfo del suo impero di Etiopia.
  Dopo questi avvenimenti, ricordo che un certo tempo dopo qualche cosa mi turbò, senza che ne potessi capire una ragione. Dalla finestra di casa vidi la guardia che chiedeva i documenti ai girovaghi di un circo per verificare se fossero per caso ebrei. Infatti si diffuse subito la voce che i fascisti cercavano gli ebrei per espellerli dall’Italia. Era la prima volta che sentivo parlare degli ebrei e non sapevo immaginare se fossero delinquenti. Però si parlava di razza ebraica e di problema della razza.
   Di questo problema della razza, allora  mi ricordavo che qualche tempo prima avevo letto sul giornale esortazioni  agli italiani in Abissinia di astenersi di avere rapporti con le donne abissine e raccomandazioni per la conservazione della purezza della razza.
  Ora però sentivo che quello degli ebrei era un problema molto più grave, per cui anche la guardia comunale era chiamata ad accertarsi se i forestieri giunti in paese fossero o no degli ebrei. Si diceva allora dalla gente che c’era un indizio da verificare, e cioè se il cognome loro fosse il nome di un luogo, specialmente di una città, poiché gli ebrei avevano tutti per cognome il nome di un paese o di una città; ma certamente questa era un’idea strampalata, messa in giro da gente ignorante.

   

martedì 8 settembre 2015

                                                     FERRAGOSTO  
              Ogni anno, ad agosto, è così. Mi rivedo prima della guerra, allora ragazzino, davanti casa mia in paese, guardare mio zio fuori dalla sua bottega di falegname, che augurava ai passanti il Buon Ferragosto. Lo guardavo proprio perché non riuscivo a capire che cosa fosse quel “ferragosto”, tanto più che non era un giorno festivo.
                   Lo augurava anche Marcello con i suoi bigliettini inseriti la mattina sotto la porta di ogni casa, con sopra stampato “Il Postino augura Buon Ferragosto”. Infatti Marcello, con i suoi bigliettini che faceva stampare per tempo, augurava anche il Buon Natale e la Buona Pasqua, che erano giorni di festa. Ma il “ferragosto” non era un giorno festivo, era semplicemente il primo giorno di agosto.
                  A me non interessava però l’avvenimento, la ricorrenza più o meno significativa. Quello che mi tormentava era il significato di quella parola “Ferragosto”, così strana, che non riuscivo a venirne a capo a causa di quel misterioso “ferra” unito curiosamente ad “agosto” e che mi suggeriva qualcosa di collegato col ferro, con qualche azione che richiamasse qualche “ferratura”, anche se non riguardante propriamente i fabbri.
                    Ne venni a capo in seguito, ben dopo la guerra, ormai da grande, dopo che avevo studiato storia e latino, anche perché non mi ero accontentato delle definizioni striminzite del mio vocabolario, quando me n’ero comprato uno. E certamente non potevo avere a disposizione un’ enciclopedia.
                  Allora, però, nessuno più augurava il “Buon Ferragosto” il primo di agosto, ma lo faceva il giorno quindici, cioè il giorno dell’Assunta. M’incuriosiva allora il fatto che la gente affluisse o defluisse dalle chiese affollate augurandosi vicendevolmente il “Buon Ferragosto” anziché, mettiamo, “Buona Festa dell’Assunta”. Mi colpiva ancora la stranezza di come per più di duemila anni la gente si era scambiata gli auguri per le “Feriae Augusti”, anche nei venti secoli di cristianesimo, e poi con un cambiamento repentino nel corso di pochi anni, se li era scambiati invece nel giorno dell’Assunta.
                   Ora tante chiese sono vuote anche nel giorno dell’Assunta, eppure la gente continua a scambiarsi gli auguri con il “Buon Ferragosto” così come ha sempre fatto nel passato, solo che lo fa il giorno quindici e non più all’inizio del mese, come al tempo di Augusto e come al tempo degli anni Trenta del secolo scorso. Nei duemila anni sono cambiati i sentimenti religiosi, che apparentemente sembrano quelli più profondi, e con essi sono cambiati i giorni degli auguri; ma non è cambiato l’uso di augurare il “Buone Vacanze”, il “Buon Ferragosto”, in quanto espressione di sentimenti legati al bene diretto e personale del godimento concreto dei benefici del riposo, delle vacanze e del turismo agostano.
                  Ho sempre più l’impressione che la gente abbia dato valore più ai benefici materiali che gli potessero pervenire dal presente, che non a quelli aleatori delle promesse religiose, anche quando poteva sembrare che le manifestazioni rituali paressero dire il contrario. 




lunedì 31 agosto 2015

Dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI  edito da SIMPLE  pubblico qui di seguito le prime due composizioni.

                QUESTO  MONDO

Questo è il mondo.
Verso questo mondo
Avrei voglia di urlare  ed inveire.

Mondo in cui la gente
Corre dietro  segnacoli e vessilli,
Scanna  e si scanna
Sol che vi siano simboli e sigilli.

Mondo fatto di servi,
D’ipocriti, di furbi, di padroni,
Di ladri e di spergiuri
Protesi tutti a spremere minchioni.

Mondo balordo fatto di congreghe
Che un proprio dio si foggiano per spingere
Credule folle a stolide tragedie.

In questi miei versi questo mondo
Non posso che deridere e schernire,
Per sfogare l’interno mio furore                  
E non rodermi dentro
Urlare ed inveire.                
              


               L’UOMO

Spesso si dice che l’uomo è uomo
E che vale ben più d’una bestia.
Ed io dico che ciò è vero, giacché
Uomini-agnelli ci sono, uomini-lupi,           
Uomini-cani ed uomini-porci,
Uomini-vermi ed uomini-iene.                             
L’uomo è ben più di tutti gli animali,
Perché in sé tutte le bestie contiene
Ed è più bestia di cento bestie insieme.














venerdì 31 luglio 2015

            FRUTTA  E… TECNICA
   Sono stato al mercatino dei coltivatori. Ora ho sul tavolo alcuni cestini di frutta raccolta a pochi chilometri dal luogo di consumo. Frutta di colori vivi e morbidi, soprattutto di aromi sottili come li sentivo nel mio campo, quando coglievo le pesche vellutate quali il Trionfo, innestate da mio padre su portainnesti di mandorli.
   Colori, sapori, morbidezza, aromi che mi richiamano sensazioni e che mi offrono motivi per considerazioni, raffronti, sentimenti, idee, tutti insieme confusi nell’animo, ma progressivamente sempre chiari nella mente.
   Altri tempi, altre stagioni, ma soprattutto altri mesi. Già, altri mesi. Ricordo che quando fu proclamata la Repubblica, noi cogliemmo gli ultimi quintali di cerase, che dal campo io riportai con i bigonci caricati sull’asino in paese, per essere vendute ai bagarini, che nella notte le avrebbero portate a vendere a Roma con i carretti. Erano gli ultimi quintali di “Ravenne tardive”, giacché le altre varietà precoci erano state raccolte giorni prima.
  Ricordo che in uno degli anni Sessanta, mia madre mi lasciò una pianta intera carica di cerase “Ravenna tardive” nell’ultima settimana di giugno, quando la raccolta era stata già termina almeno da quindici giorni, perché io ne potessi mangiare, tornando in vacanza nel mio paese; molte erano cadute per eccessiva maturazione, ma molte altre io e mia moglie le mangiammo dolcissime e fragranti.
   Altre stagioni, altre varietà. E oggi, ventisette luglio, ho davanti a me le cerase: le “Ferrovia”, i “Duroni”, ecc. Qualche anno fa, a Ravenna, ebbi un soprassalto, quando al mercatino dei coltivatori vidi in vendita, ad agosto inoltrato, sportine di albicocche freschissime. Strano. Quando facevo il contadino, le albicocche si raccoglievano a giugno e ai primi di luglio, se non sbaglio.
   Strano! Ma oggi niente è più strano. Non basta la globalizzazione dei mercati. Interviene nell’agricoltura la biotecnologia. Ricordo che i carciofi allora si raccoglievano a maggio tra i filari delle vigne, saporitissimi e profumati di sole, ma ora si raccolgono a febbraio, teneri e grossi quasi come meloncini, ma scialbi. Ricordo che l’uva si cominciava a mangiare nel mese di settembre, ma ora già si vede sul mercato a luglio e abbiamo i pomodori tutto l’anno fatti crescere e maturare nelle serre al calore delle fiammelle di gas.
   Ricordo che mio padre ricorreva agli innesti per avere varietà di frutti più belli, più buoni e più redditizi. Ora con le nuove tecniche gli agricoltori ottengono pesche colorite, rosse già allo stato acerbo, sicché quando si comprano, invece di mangiarle, ci si potrebbe giocare alle bocce. I mercati hanno rifiutato varietà di pesche profumate e meravigliose a causa della delicatezza della buccia, soggetta a facili ammaccature; le hanno sostituite con varietà la cui buccia sembra cuoio al morso e alla masticazione. Io che ero abituato a mangiare ogni frutta con la buccia, appena staccata dai rami, non ne posso più di queste bucce coriacee che non riesco a deglutire. 
   D’altra parte gli acquirenti, generalmente, non chiedono più l’acquisto di varietà specifiche di questa o quella frutta, tanto che spesso indicano ogni frutto  solo col suo nome generico: la pesca (non la pesca Nettarina o la pesca Uccello Rosso) la ciliegia (non la ciliegia Ravenna o Vignola) la mela (non la mela Rosa o Limoncella o Deliziosa).  Hanno perso il gusto delle particolarità del frutto con piccoli difetti ma esposto al sole e ricco di sapori, per cui richiedono invece frutti con belle forme e colori vistosi, frutti levigati come gli oggetti usciti dalle fabbriche, perché ormai hanno perso il piacere delle particolarità ed anche delle imperfezioni della natura, e sono attratti dalla regolarità artefatta delle cose uscite di fabbrica, tutte della stessa grandezza, tutte della stessa forma e colore, come se fossero palline colorate o tappi o bottiglie anziché cose naturali da mangiare.

  Comunque questo non pare un problema, poiché l’aspetto economico è quello più importante per chi vende e per chi acquista. Dietro l’aspetto economico ci sono altri aspetti non meno importanti nella dimensione culturale; ma di questa dimensione in un mondo materialista e massificato pare che a nessuno realmente interessi.

sabato 11 luglio 2015


            SCUOLA E…SCUOLA DI MASSA
    C’erano scuole elementari quasi dovunque allora, negli anni Trenta e Quaranta, quando io ero ancora ragazzo e  poi ventenne. Ma nel mio paese c’erano solo scuole elementari. Per il ginnasio e altre scuole bisognava recarsi ad almeno venticinque chilometri, con l’autobus che partiva al mattino presto e poi tornava la sera tardi, oppure con un carretto o una bicicletta.
   Studiavano solo alcuni agiati in pensionati familiari; e solo qualcuno arrivava alla laurea. Alcuni fingevano di avere la vocazione religiosa per studiare nei conventi, conseguire un diploma, una carta su cui contare per un mestiere comodo e poi buttare la tonaca.
   Tra i molti che non potevano proseguire la frequenza scolastica, solo chi aveva sete di sapere leggeva libri. Io che non avevo potuto studiare mettevo anche un solo soldo da parte per comprarmi dei libri. Finita la guerra, poi, con i partiti di sinistra noi ci nutrivamo di ideali di libertà e di giustizia, di uguaglianza sociale. Aspiravamo alla frequenza della scuola, perché volevamo il diritto all’istruzione per tutti.  E la scuola e l’università davvero furono date a tutti. In seguito furono date a tutti anche le biblioteche comunali.
   Ma poi le scuole e le università diventarono solo scuole e università di massa; e le biblioteche si rivelarono solo come fonti d’affari per librai ed editori. Infatti chi ha sete di sapere i libri se li compra da sé, con sacrifici, li vuole disponibili e li custodisce in casa, perché ha bisogno di strutturare le proprie conoscenze e il proprio sapere con i libri a portata di mano, sentiti come fonte di colloqui, di ricerche, di riflessioni e di confronti.
   Oggi possiamo osservare che l’università di massa nonha sfornato solo le eccellenze del sapere ma anche una torma di mediocri, aggrappati al solo valore dei titoli, cioè ad una carta attestante un certo grado di conoscenze, utile per  incorniciarla a un parete e per ottenere un posto nel lavoro. E sono questi mediocri che guardano dall’alto in basso i non laureati, ritenendosi essi posti un grandino più su degli altri nella scala sociale più che in quella del sapere.
    Li ho notati specialmente dentro la piccola burocrazia di provincia, ma non solo, sempre pronti alla domanda: Ma quello è laureato? Già perché essi dividono il mondo nelle due categorie di laureati e non laureati. Pronti ad un sorrisino di compiacimento quando vengono a sapere che qualcuno non ha una laurea.
   Guardano sempre dall’alto in basso i non laureati. Risibili. Non sanno essi, i mediocri, che la scuola e l’università lasciano l’intelligenza di ciascuno per quella che ci è data dalla natura e non l’aumentano di un ette. Non sanno i mediocri che Serao, Mussolini, Sciascia, Mastronardi e tanti altri personaggi erano semplici maestri elementari; che Montale (premio Nobel) era solo un ragioniere, che Quasimodo (premio Nobel) era solo un geometra, che Emilio Salgari aveva solo frequentato un istituto nautico, che D’Annunzio e Croce non erano laureati, che Grazia Deledda (premio Nobel), Trilussa, Franklin, Edison e Marconi erano solo autodidatti ( e questo solo per nominarne alcuni).
    Così il problema della scuola e dell’università di massa diventa un problema grande “come una casa”. Con la conseguente domanda: a che serve l’università se dopo la laurea c’è il rischio del semianalfabetismo di ritorno? Lo dicono De Mauro e tanti altri professori universitari: molti dopo alcuni anni dalla laurea non riescono più a interpretare neanche un articolo.
   Forse occorrerebbe selezionare meglio e pagare molto di più gli insegnanti che nelle scuole, sin da quelle primarie, provvedano veramente ad educare i giovani all’amore per la conoscenza in sé e per sé (dice il Poeta: “Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza” Inferno- Canto XXVI). E se ciò non fosse possibile, bisognerebbe creare difficoltà di frequenza a coloro che perseguono solo lo scopo di acquisire comunque un pezzo di carta per esercitare un mestiere; perlomeno bisognerebbe tenere comunque lontani dall’insegnamento nelle scuole questi mestieranti   mediocri. 
   Si capisce, lo dico per paradosso. D'altra parte che cosa ci si può aspettare da coloro che, non avendone una propria, si rivestono di una personalità presa in prestito da un abito, da una divisa, da un ruolo, da un titolo? Come non ci si può nobilitare con la semplice acquisizione di un titolo nobiliare così non ci si può nobilitare col conseguimento di una semplice laurea! 
   Lo dico anche con amarezza, nel vedere a che cosa si riduce il sapere in una civiltà di massa, a che cosa si riduce l’uomo quando è messo nelle condizioni di divenire solo uno strumento dello sviluppo tecnologico  e del processo di massificazione culturale.
  

martedì 30 giugno 2015

                               LIBERAZIONE E AMLIRE

   Nell’estate del 1944 non c’erano che macerie e miserie. Ma si respirava un’aria nuova, e dentro di noi c’erano speranze. Contava il futuro, che era al di là della crudeltà del presente.
  Gli alleati l’otto giugno ci avevano liberato; questo contava. Che ci avessero occupato non lo volevamo vedere, anche se gli inglesi con la loro arroganza ce lo buttavano in faccia, abituati com’erano a comandare sulla gente delle loro colonie.
  Ora però c’erano differenze profonde in rapporto ai tedeschi. Questi facevano retate e con la minacce delle armi spianate ci costringevano a seguirli per scavare buche e trincee; e noi ce ne sottraevamo ad ogni costo, col rischio di farci sparare una sventagliata di mauser.
   Gli alleati invece ci reclutavano e proprio perché liberati da loro, noi andavamo col desiderio di collaborare contro i tedeschi per la fine di una guerra atroce.  Con i loro camion venivano in paese, ci caricavano e ci portavano al lavoro. E ci pagavano; con le Amlire però.
    Allora non lo capivamo. Io non avevo ancora diciotto anni ed avevo la quinta elementare. In seguito l’ho capito. Essi stampavano le lire e ci pagavano con i nostri soldi, non con i loro! Ci pagavano col nostro debito. Per questo, alla fine della guerra, ci ritrovammo con la moneta svalutata e molto più poveri. Ci facevano pagare le rovine che ci eravamo procurato con la guerra voluta dal Duce e acclamata dalla gente. Solo che allora noi paesani non lo capivamo e credevamo che lo facessero davvero per il bene nostro. Forse ci piaceva solo di crederlo.
   A me portavano con il camion a Montemaggiore, dalla mattina alla sera, a pulire le scuderie piene di muli e cavalli; e cataste di sacchi di carrube per mangime. Non ricordo con precisione quante amlire ci davano al giorno; una bella paga comunque per quei tempi. Non erano soldi loro.
  Un giorno, nella palazzina dell’ex comando italiano, colpita da qualche bomba e piena di calcinacci, tra tanti libri rovinati e stracciati, ne trovai uno che era rimasto quasi intatto, e me lo portai a casa come fosse una cosa preziosa per me,  che non ne avevo che pochi altri consunti. Era un libro con le poesie di Felice Cavallotti, con il nome e cognome del possessore riportato   sopra un exlibris, forse di un  ex ufficiale di cavalleria o di un veterinario che l’aveva abbandonato l’otto settembre dell’anno prima.
   Altri miei compaesani venivano portati col camion per i lavori sulla ferrovia Roma-Firenze. Mi dicevano che erano obbligati a riempire le buche grosse come pozzi, provocate dalle bombe, con qualsiasi materiale del posto, soprattutto con le traversine scavicchiate e con le matasse dei cavi di rame delle linee elettriche.
  Questo danno che ci  procuravano col mancato recupero di materiale costoso era di facile intuizione e lo capimmo subito: in seguito avremmo dovuto comprare da loro il rame occorrente a caro prezzo. Anche se poi ci aiutarono col loro Piano Marshall. Ma questo avvenne dopo, quando ebbero bisogno di condizionare il nostro voto per le nostre scelte politiche, nel timore che noi votassimo per i partiti socialcomunisti.

   Però eravamo felici, non solo perché ora si combatteva contro i tedeschi e non c’erano più i bombardamenti degli alleati, ma perché parlavamo anche di libertà, cioè di una cosa che ancora non conoscevamo concretamente, ma che ci appariva come promessa di opportunità per un mondo nuovo.

giovedì 25 giugno 2015


 
                         GUERRA   D’ ABISSINIA

   Non ricordo quando fu dichiarata la guerra d’Abissinia, ma ricordo l’entusiasmo della gente  del mio paese ad ogni notizia di avanzata del nostro esercito, sia delle colonne che muovevano dall’Eritrea, comandate dal generale e quadrunviro De Bono, che di quelle che muovevano dalla Somalia e comandate dal generale Graziani.                                                                                                                         Ricordo che un giorno vidi una scena che non ho mai più dimenticato, poiché mi aveva turbato molto: una donna gridava disperata, mentre gli uomini della pretura procedevano al sequestro e portavano via dalla sua casa una vecchia macchina per cucire, un tavolo, le sedie e dalla stalla un maiale.                                      Dicevano che il sequestro veniva ordinato perché in famiglia non erano riusciti a pagare le tasse. Era una scena straziante. Poi, però, per ottenere il dissequestro e pagare le tasse, il marito della donna e padre di alcuni figli, partì volontario per la guerra d’Abissinia. Anzi, poi, finita la guerra d’Abissinia, partì volontario per la guerra civile di Spagna; e pure un suo figlio partì volontario per la stessa guerra di Spagna, perché era diventato maggiorenne.                                                              Ricordo anche  che per quella guerra all’Italia furono applicate le sanzioni dalla Società delle Nazioni. Il Duce fece scatenare una intensa propaganda di reazione contro la Società delle Nazioni e, particolarmente, contro l’Inghilterra in quanto negavano al popolo italiano il diritto al possesso di colonie, il diritto al “posto al sole” come allora dicevano.                                                                                        Ricordo che per suscitare moti di reazione nel popolo, fecero murare anche nella piazza del mio paese una lapide in cui era incisa la protesta contro l’ingiustizia delle sanzioni comminateci dalla Società delle Nazioni.         Per far fronte  alla penuria della farina di frumento, disposero che nei negozi si potesse vendere solo farina per due terzi di frumento e per un terzo di mais. Questo per chi doveva comprare la farina, ma quasi tutti in paese avevamo il grano che si macinava al mulino.                                                                                                                         Ricordo, inoltre, che in un giorno preciso fu proclamata la giornata per il dono dell’oro alla Patria per  fronteggiare le ingenti spese della guerra. Misero un grosso contenitore su un grande tavola in mezzo alla piazza: e io vedevo le donne che vi si recavano e, alla presenza del segretario del fascio, della guardia municipale e del podestà, vi depositavano collanine d’oro, spille e  fedi nuziali in cambio di fedi d’acciaio. Era la cerimonia di un “dono” sotto il controllo occhiuto delle autorità, cui non si poteva sfuggire, specialmente col “dono” delle fedi cui le donne  soggiacevano piangendo segretamente.                                                          Quasi tutte le mattine mio padre mi mandava a comprare il giornale, che si vendeva presso l’ufficio postale, un po’ distante da casa. Andavo a comprare Il Popolo di Roma e lo leggevo anche camminando. C’erano spesso dei capannelli di uomini che volevano avere notizie della guerra d’Abissinia, ma non sapevano leggere o capire gli articoli; alcuni di loro sapevano solo fare la firma, altri avevano frequentato la seconda o la terza elementare.                                           Un giorno, vedendo che io leggevo il giornale, alcuni di capannello mi chiesero chiarimenti sull’avanzata delle nostre truppe. Rimanevano con gli occhi stralunati perché  gli mostrai sulle cartine del giornale le linee dell’avanzata delle truppe di Badoglio, che aveva sostituito De Bono e le linee dell’avanzata delle truppe di Graziani, che procedeva da sud, in direzione della capitale Addis Abeba. Ma erano incantati dalle vittorie di Mussolini; e del popolo abissino forse sapevano solo che era nero.

 

 

 

 

 

venerdì 12 giugno 2015

Il modano è un cannello con cui i pescatori rammagliano le reti.
Per me qui è una metafora del blog in cui m'ingegno di rammagliare le mie memorie per rievocare eventi del passato.
Oltre questo blog, chi lo volesse potrebbe leggere anche gli altri due miei blog:”Poesia e forma.blogspot.com”-- “Echi e richiami.blogspot.com”





                    RADIO  LONDRA E RADIO MOSCA
   Ho vivo il ricordo del fascismo. L’ho vissuto. Al tempo della guerra d’Abissinia e dell’Impero sembravano tutti fascisti, entusiasti dei trionfi del Duce, imposto e visto dalla propaganda come la personificazione del genio italico.
     Nell’animo  molti conservavano però sentimenti antifascisti, anche se si sentivano rovesciare addosso in ogni momento il trionfalismo ducesco. Nascondevano la loro avversione al fascio, perché, come sentivo accennare sommessamente, anche nel nostro paesino c’era qualcuno collegato con l’OVRA, cioè l’organizzazione degli spioni per individuare e condannare gli antifascisti alla galera o al confino. 
    Il podestà, il segretario del fascio, il direttorio, i frequenti cortei, le divise, che andavano da quelle dei figli della lupa a quelle delle camicie nere, i sabato fascista con l’istruzione premilitare, gli inni, le frasi lapidarie del Duce scritte a caratteri enormi sui muri più in vista, e soprattutto le poche radio che sparavano la voce del Duce dai davanzali delle finestre, davano l’idea che l’Italia avesse una sola anima compatta e volontaristica. Sembrava che tutti facessero capo al Duce e che tutti fossero animati dalla sua volontà che si manifestava dai discorsi dal balcone di Piazza Venezia.        Eppure mio fratello, più grande di me di quattro anni, spesso la sera mi portava a sentire Radio Londra ed anche Radio Mosca. Anche perché d’inverno, la sera , nel paese non vi era alcun ritrovo, all’infuori delle tre o quattro osterie vocianti, che puzzavano di fumo e di vino. 
   Anche le radio erano scarse, perché costosissime per le possibilità dei paesani, tanto che alcuni giovanotti tentavano di costruirsele a galena. Infatti le radio erano quelle della sede del fascio, dell’agricoltura, del comune, ecc. e qualcuna posseduta privatamente da qualche benestante.
     Mio fratello mi portava ad ascoltare quella dell’ufficio di collocamento, che era situato in un sottoscala. Sembravamo un gruppetto di cospiratori, messi dentro quella stanzetta nascosta. Invece il titolare dell’ufficio era un fascista, che nelle adunate e nei cortei vedevo entusiasta con la camicia nera e il fez.
        Dopo che eravamo entrati nell’ufficio, un po’ sul tardi, dopo chiusa la porta, ci ammoniva, soprattutto rivolgendosi a me che ero ragazzo, di non riferire i nostri ascolti, e poi sintonizzava l’apparecchio  su Radio Londra. Ascoltavamo per un po’ il colonnello Stivens, più raramente Umberto Calosso e anche i messaggi speciali, che potevano sembrare stupidi e che invece erano messaggi di guerra segreti.   Più tardi si sintonizzava con qualche fatica su Radio Mosca. Questo specialmente nell’inverno del 1939, quando era scoppiata la guerra tra la Russia e la Finlandia.
   Non so più dire che sentimenti si provavano veramente ascoltando sia Radio Londra che Radio Mosca. La cosa più certa era la paura di essere scoperti e denunciati almeno come contravventori alle severissime leggi che proibivano l’ascolto di tali stazioni radio. Ma non se ne seppe mai niente.

venerdì 5 giugno 2015

                                           LE BATTAGLIE FASCISTE

  La battaglia del grano dette risultati sicuramente positivi, puntando non sull’aumento delle aree di semina, ma sulla produttività delle varietà, che in quegli anni anche da noi s’imposero con quelle che ancora oggi ricordo più diffuse da noi: Reatino, Carosello, Roma, ecc. Ricordo che però da noi non rendeva più di tredici volte il quintale di semina, per cui sentivo i contadini del mio paese lamentarsi della scarsità del raccolto.
  In effetti, la battaglia del grano non riguardò il territorio del nostro paese, caratterizzato dalla piccola proprietà contadina. I piccoli appezzamenti non consentivano una coltivazione intensiva. Ogni contadino in genere provvedeva alla semina del grano necessario al consumo familiare o poco più.
   La lavorazione dei campi (aratura e semina ) era affidata ai bovari, che possedevano una o due coppie (vette, in dialetto) di buoi da aggiogare all’aratro. Neanche nelle terre del principe Torlonia, per quanto estese, si realizzò effettivamente la  battaglia del grano, perché venivano suddivise e concesse per la coltivazione del grano ai molti bovari della zona, sicché ne risultava una coltivazione frazionata, come se fosse costituita da centinaia di piccoli campi. Infatti la resa per ettaro continuò ad essere come sempre assai povera, cioè intorno ai tredici quintali per ettaro, nelle migliori condizioni. 
   La battaglia della sanità riguardò la davvero benemerita lotta contro la tubercolosi, con l’istituzione di Consorzi Antitubercolari, con la vendita di francobolli nelle scuola per la campagna antitubercolare e il divieto di sputare per terra con le annesse contravvenzioni (ricordo gli avvisi stampati affissi alle pareti delle osterie).
  E davvero, allora, negli anni trenta, c’erano anche nel nostro piccolo paese diversi casi di tisi, soprattutto di giovani, di cui ancora ho vivo il ricordo, e l’allarme delle mamme che raccomandavano ai figli di non raccogliere eventuali caramelle cadute per la strada (si supponeva che fossero state succhiate e poi abbandonate dagli ammalati, come per gli untori nella peste).

   La battaglia demografica fu sottolineata con la tassa sul celibato: chi non si sposava doveva pagare una tassa annua, mentre venivano premiate le famiglie numerose e le nascite di gemelli. Nel mio piccolo paese nacquero molti più bambini in vista dei vantaggi economici; e ricordo anche due coppie di gemelli cui furono imposti i nomi di Bruno e Vittorio in onore dei due figli del Duce con gli stessi nomi. Fu allora che si diffusero anche i nomi di Benito e Benita.

giovedì 28 maggio 2015

                                         RETORICA  FASCISTA

   Al tempo delle mie elementari, la retorica del Duce e dei fascisti straripava ovunque: dalla radio, dai giornali, dalle “adunate” nelle celebrazioni del 21 aprile per il Natale di Roma, del 9 maggio per l’anniversario della fondazione dell’Impero nel 1936, del 24 maggio per l’anniversario della dichiarazione di guerra nel 1915, del 28 ottobre per l’anniversario della marcia su Roma nel 1922, del 4 novembre  per l’anniversario della vittoria nel 1918.
   In quei giorni celebrativi, il nostro piccolo paese pullulava di divise: camicie nere della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (cioè l’esercito parallelo del partito fascista)  bandiere, gagliardetti,  cortei con la banda musicale che suonava Il Piave, la Marcia Reale, Giovinezza e gli altri inni fascisti.
   Era una retorica tambureggiante, gonfia  e tronfia nelle parole e nelle immagini, con l’ideale e la mistica fascista, con la  fede nel Duce,  con l’eroismo verboso, con la gestualità magniloquente: prima di tutto con quella parola  “Duce”, aulica e dannunziana, a indicare Mussolini nella sua posa  di capo e condottiero d’eserciti che voleva riecheggiare la grandezza di Cesare; e poi il ciarpame dei distintivi col fascio, con i  pugnali, i moschetti, i teschi, i cinturoni, gli stivali dei caporioni, ecc.
  Altro aspetto notevole della retorica fascista fu il richiamo alla grandezza di Roma, la pretesa di far rivivere in quegli anni lo spirito guerriero degli antichi romani, l’aspirazione a una rinascita della grandezza della civiltà romana e l’impero di Roma col dominio del mare nostrum.
  Per questo noi alunni eravamo indottrinati non solo nella mistica fascista, ma anche negli episodi esemplari dell’eroismo e della stoicità dello spirito romano:  i fratelli Orazi e i Curiazi, Orazio Coclite che da solo difende il Ponte Sublicio, Muzio Scevola che brucia la sua mano per aver mancato l’uccisione di Porsenna, Cincinnato che rinuncia alla dittatura e torna ad arare i suoi campi, la madre dei Gracchi che mostra i figli come suoi gioielli, ecc. ecc. E per questo eravamo anche impegnati a cantare Fuoco di Vesta Inno a Roma, come espressione ed omaggio alla grandezza di Roma, di cui noi dovevamo sentirci naturali ed orgogliosi eredi.
  La retorica più grassa e vuota era soprattutto nella pretesa della fondazione di un nuovo millenarismo, di una nuova era, cioè dell’era fascista, per cui anche noi ragazzi delle elementari ad ogni compito scolastico dovevamo scrivere la data e aggiungere ad essa l’anno dell’era fascista (ad es. 4 aprile 1936 – XIV E. F.).
   Altri esempi di retorica, ma anche di concrete realizzazioni, furono la battaglia del grano, la battaglia demografica e la battaglia per l’igiene e la sanità.  




lunedì 18 maggio 2015

                                             CENTO ANNI FA
  Quando ero ragazzo, negli anni Trenta, si celebrava la ricorrenza del 24 maggio, giorno dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, il cui primo attacco però avvenne la sera del 23, così come anche racconta mio padre.
 Si celebrava con un giorno di vacanza nelle scuole, con la retorica nazionalista e fascista, col concorso delle autorità, con bandiere e corteo, con atteggiamenti marziali dei partecipanti, con la  deposizione della corona d’alloro al monumento dei caduti, con la banda musicale che suonava la Canzone del Piave , ed anche con l’ educazione e la  preparazione delle nuove generazioni alla guerra.
   Si celebrava l’inizio di una guerra che tolse al lavoro e alle famiglie diversi milioni di giovani e che ci costò seicentomila morti, anche nel tentativo d’impedire la conquista del potere da parte dei socialisti.
   Dalla fine della seconda guerra mondiale non si celebra più. Ma altro è la celebrazione e altro il ricordo: è bene averne memoria, almeno per non ripeterne l’errore, anche se non si volesse capirne la lezione storica. Ed anche la lezione politica.
   Per questo riporto qui di seguito quanto scritto da mio padre Giuseppe  nel libretto “Memorie di un contadino poeta” , pubblicato dalla Biblioteca Comunale di Moricone, per interessamento e merito dell’allora sindaco  Augusto Forti.
 Mio padre, classe 1890, era stato richiamato alle armi e il dieci maggio si era presentato a Roma, al Secondo Reggimento Bersaglieri nella caserma di San Francesco a Ripa, in Trastevere.
  Così racconta mio padre.
  “La mattina del 15 maggio 1915 si sparse la voce di un ordine di partenza per destinazione ignota. La mattina dopo  fu inquadrato tutto  il mio battaglione, marciammo verso la stazione , salimmo sul treno e si partì.
Nelle stazioni, la gente ci salutava con i fazzoletti….. Attraversammo l’Italia e sembrava che non si arrivasse mai (viaggiavano in tradotta.N.d.a).
  Nel bellunese, di notte, scendemmo in una stazione di cui non seppi mai il nome. Fuori di essa c’inquadrammo e poi cominciammo a marciare per una via in salita……..  Dopo qualche ora di salita… la nostra stanchezza era diventata enorme. Allora procedemmo a strappi. Si camminava un po’, poi ci si fermava con lo zaino a terra, poi ci si arrampicava ancora e ci si fermava di nuovo; così andavamo verso la cima.
   …………..Arrivammo ad un varco, con poche casette, chiamato Frassenè. Era il venti maggio (Con la tradotta, avevano viaggiato per cinque giorni. N.d.a). Verso sera prendemmo un po’ di rancio. Dormimmo per terra in alcuni locali ed appoggiammo la testa sullo zaino. Il giorno dopo ci fu un po’ di riposo; procedemmo alla pulizia delle armi e furono fatti esercizi di guerra.
   Il giorno ventidue ci fu dato l’ordine di salire sulla montagna in pieno assetto di guerra. Appena preso il caffè, prendemmo per una mulattiera che a zigzag saliva  verso la cima del Monte Luna, di circa duemila metri, verso i confini austriaci.
Era già passato mezzogiorno, quando salimmo sulla vetta e ci affacciammo sui confini. Là, il nostro comandante ci fece un breve discorso, dicendoci che da un momento all’altro sarebbe arrivato l’ordine di varcarli. Ridiscendemmo a Frassenè e, quando vi giungemmo, era già ora del rancio; ce ne fu dato un poco e poi tornammo a dormire nel nostro giaciglio.
  La mattina del ventitré ci fu dato ordine di marciare per varcare i confini. Era la guerra. Ci fu dato il solito rancio alla solita ora, poi cominciammo la marcia per una mulattiera, che da Frassenè scendeva a valle, verso un paesino chiamato Sagron, posto appena al di là dai nostri confini.
   Marciammo tutto il giorno. Verso l’ora tarda cominciò a scendere dai monti una nebbia fitta; e insieme scendeva una pioggia minuta, dolce, che appena si sentiva sulle nostre spalle. Sotto quella pioggerellina passammo il confine ed entrammo in una valle per il Passo Cerreto. Cominciava a far notte,, noi eravamo bagnati e lo zaino era diventato molto pesante: ci fu dato l’ordine di buttare lo zaino a terra e di dormire.
  …….La mattina prendemmo il caffè e, zaino in spalla, si riprese a marciare verso Fiera di Primiero, che sta lungo la carrozzabile per Passo Rolle. Più tardi incontrammo due sacerdoti che si dirigevano verso Sagron, ormai rimasto alle nostre spalle; come sospetti di spionaggio furono presi e portati via”.
 Voglio notare, inoltre, che anche la Canzone del Piave parla del 24 maggio come primo giorno di guerra:
“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio 
Dei primi fanti il ventiquattro maggio:” 
In realtà mio padre attraversò il confine il ventitré a sera. Ciò è anche confermato dal Corriere della Sera del lunedì 24/5/1915 il cui articolo di fondo, sotto la data del 23/5/1915, inizia:”La guerra all’Austria è ufficialmente dichiarata. Sin da ieri l’on. Sonnino aveva telegrafato al nostro ambasciatore a Vienna incaricandolo di presentare al governo austroungarico il testo della dichiarazione di guerra”.
                                                          


domenica 10 maggio 2015



Pubblico qui di seguito tre bigliettini tratti  dal
mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI
edito da SIMPLE di Macerata.


               L’UOMO

Spesso si dice che l’uomo è uomo
E che vale ben più d’una bestia.
Ed io dico che ciò è vero, giacché
Uomini-agnelli ci sono, uomini-lupi,           
Uomini-cani ed uomini-porci,
Uomini-vermi ed uomini-iene.                             
L’uomo è ben più di tutti gli animali,
Perché in sé tutte le bestie contiene
Ed è più bestia di cento bestie insieme.



               COSCIENZA
            
                          Abbiamo la coscienza tutti eguale,
                          Non più scolpita dentro noi, nel cuore,                                                     Ma scritta sulla carta
                          Il cui rimorso è dato
                          Dal codice penale.


                  RISPETTO

 Per rispetto dell’uomo                                                 
 Siamo giunti al rispetto per l’infame,
 Mancando di rispetto al galantuomo