GUERRA D’ ABISSINIA
Non ricordo quando fu dichiarata la guerra
d’Abissinia, ma ricordo l’entusiasmo della gente del mio paese ad ogni notizia di avanzata del
nostro esercito, sia delle colonne che muovevano dall’Eritrea, comandate dal
generale e quadrunviro De Bono, che di quelle che muovevano dalla Somalia e
comandate dal generale Graziani. Ricordo che un giorno vidi una scena che non
ho mai più dimenticato, poiché mi aveva turbato molto: una donna gridava
disperata, mentre gli uomini della pretura procedevano al sequestro e portavano
via dalla sua casa una vecchia macchina per cucire, un tavolo, le sedie e dalla
stalla un maiale. Dicevano che il sequestro veniva ordinato perché in famiglia
non erano riusciti a pagare le tasse. Era una scena straziante. Poi, però, per
ottenere il dissequestro e pagare le tasse, il marito della donna e padre di
alcuni figli, partì volontario per la guerra d’Abissinia. Anzi, poi, finita la
guerra d’Abissinia, partì volontario per la guerra civile di Spagna; e pure un
suo figlio partì volontario per la stessa guerra di Spagna, perché era
diventato maggiorenne. Ricordo anche che per quella guerra all’Italia furono
applicate le sanzioni dalla Società delle Nazioni. Il Duce fece scatenare una
intensa propaganda di reazione contro la Società delle Nazioni e,
particolarmente, contro l’Inghilterra in quanto negavano al popolo italiano il
diritto al possesso di colonie, il diritto al “posto al sole” come allora dicevano. Ricordo che per suscitare moti di reazione
nel popolo, fecero murare anche nella piazza del mio paese una lapide in cui
era incisa la protesta contro l’ingiustizia delle sanzioni comminateci dalla
Società delle Nazioni. Per far fronte alla penuria della farina di frumento,
disposero che nei negozi si potesse vendere solo farina per due terzi di
frumento e per un terzo di mais. Questo per chi doveva comprare la farina, ma
quasi tutti in paese avevamo il grano che si macinava al mulino. Ricordo, inoltre, che in un giorno preciso fu
proclamata la giornata per il dono dell’oro alla Patria per fronteggiare le ingenti spese della guerra.
Misero un grosso contenitore su un grande tavola in mezzo alla piazza: e io vedevo
le donne che vi si recavano e, alla presenza del segretario del fascio, della
guardia municipale e del podestà, vi depositavano collanine d’oro, spille
e fedi nuziali in cambio di fedi
d’acciaio. Era la cerimonia di un “dono” sotto il controllo occhiuto delle
autorità, cui non si poteva sfuggire, specialmente col “dono” delle fedi cui le
donne soggiacevano piangendo segretamente. Quasi tutte le mattine mio padre mi mandava
a comprare il giornale, che si vendeva presso l’ufficio postale, un po’
distante da casa. Andavo a comprare Il Popolo di Roma e lo leggevo anche
camminando. C’erano spesso dei capannelli di uomini che volevano avere notizie
della guerra d’Abissinia, ma non sapevano leggere o capire gli articoli; alcuni
di loro sapevano solo fare la firma, altri avevano frequentato la seconda o la
terza elementare. Un giorno, vedendo che
io leggevo il giornale, alcuni di capannello mi chiesero chiarimenti
sull’avanzata delle nostre truppe. Rimanevano con gli occhi stralunati perché gli mostrai sulle cartine del giornale le
linee dell’avanzata delle truppe di Badoglio, che aveva sostituito De Bono e le
linee dell’avanzata delle truppe di Graziani, che procedeva da sud, in
direzione della capitale Addis Abeba. Ma erano incantati dalle vittorie di
Mussolini; e del popolo abissino forse sapevano solo che era nero.
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