martedì 30 ottobre 2018


                                       PRESENTI ALLE BANDIERE

  “Presenti alle bandiere”. Era questa una ridondante enunciazione retorica. Ma triste. Luttuosa. Il significato nudo e crudo era: "Uccisi in guerra". Nella seconda guerra mondiale.
   Ogni mattina io compravo il giornale per mio padre, che però anche io  leggevo ogni giorno da cima a fondo e, inevitabilmente, in prima pagina, quasi sempre al centro, leggevo uno specchietto statistico intitolato appunto “Presenti alle bandiere” e poi di seguito: "Fronte russo" seguito dal numero dei morti; "Fronte jugoslavo" seguito dal numero dei morti; "Fronte libico" seguito dal numero dei morti.
   Quel che più mi sorprendeva in quel trafiletto era il fronte jugoslavo col numero dei morti frequentemente più alto di quello del fronte libico. Non sapevo spiegarmelo, giacché la Jugoslavia era già stata conquistata dal nostro esercito: invece vi  era sempre un certo numero di nostri soldati uccisi che indicava uno stato di guerra.
    Lo capii ascoltando i racconti dei soldati compaesani che tornavano in licenza da quel fronte, cioè da tutta la Jugoslavia, perché il fronte non c’era, ma la guerra c’era dovunque. C’era la guerra partigiana, che le popolazioni slave conducevano contro gli invasori, cioè contro le nostre truppe che avevano invaso le loro terre.
  Una guerra condotta raramente con attacchi frontali, ma con agguati tesi nei momenti e nei luoghi più adeguati e con frequenti sabotaggi delle vie di comunicazione, cui le nostre truppe reagivano fucilando chiunque si fosse trovato nelle zone degli agguati e bruciando le case, paesi interi con vecchi e bambini, non diversamente da come poi fecero da noi i tedeschi, quando reagimmo con la guerra partigiana alla loro occupazione del nostro paese nel 1943/44/45.
   “Presenti alle bandiere” era una delle tante espressioni retoriche in cui eccellevano i fascisti sulle orme di Mussolini, che se ne poneva al centro col definirsi Duce, che dichiarava come “nuova era” il tempo del fascismo e col porsi in continuità  con lo spirito e la grandezza della Roma di Cesare.
   In fondo tutto il fascismo era una figurazione retorica, non solo con gli orpelli delle divise, ma con tutti gli atteggiamenti pseudo atletici e pseudo guerreschi, a cominciare dal ciarpame dei simboli con teschi e pugnali per finire con il cosiddetto passo romano.
  Ma i fatti erano altri. Ed erano tragici. Finché tutto si era limitato alle manifestazioni guerraiole, alle sceneggiate delle adunate, ai roboanti discorsi dai diversi balconi d’Italia, la popolazione si era entusiasmata alle partecipazioni rituali dei cortei e delle ovazioni come su un palco del teatro pirandelliano.
   Poi però con la guerra, le cannonate, i bombardamenti, le sofferenze e i morti, cioè con i “Presenti alle bandiere”, la popolazione cominciò a guardarsi intorno, a percepire una realtà non più retorica, ma concreta, fatta di sangue, sofferenze e lutti; cominciò a vedere che non c’era più una scena in cui recitare, ma una realtà in cui vivere, allora cominciò a scendere dal palco e a guardare con astio sempre maggiore  verso il regime e lo stesso Mussolini.
   Cominciarono a circolare barzellette satiriche sul Duce, sull’andamento della guerra e sulle restrizioni alimentari, dato che c’era la fame.Soprattutto ricordo che si diffuse umoristicamente e sotterraneamente per l’occhiuta sorveglianza dei fascisti sfegatati e dell’OVRA la parodia del ritornello della canzone “Vento” di Bixio, per cui anche l’originale venne in qualche modo proibita. Questa diceva:
Vento, vento
Portami via con te
Raggiungeremo insieme il firmamento
Dove le stelle brilleranno a cento
E senza alcun rimpianto
Voglio scordarmi un giuramento
Vento, vento
Portami via con te.
   La parodia cantata invece contro Mussolini diventava:
Vento, vento
Porta
lo via con te
Raggiungere
te insieme il firmamento
Dove le stelle brilleranno a cento
E senza alcun rimpianto
Voglio scordarmi un giuramento
Vento, vento
Porta
lo via con te.
  Ormai “Presenti alle bandiere” non voleva più dire eroi, morti per la patria, per l’onore della nazione. Voleva invece dire uccisi, dilaniati nei luoghi più sconosciuti, dalla Russia all’Africa, in una guerra inutile più di tutte le guerre: voleva dire figli strappati per sempre alle mamme e alle vedove, alle famiglie, agli affetti dei più cari e degli amici. E la loro morte era divenuta insopportabile, non solo per le famiglie ma anche per le comunità, che sotto sotto si mostravano sempre più fredde verso il regime, e che  si andavano sempre più svegliando dall’ubriacatura per il Duce, per le pose bellicose e per il ciarpame della simbologia fascista.




lunedì 24 settembre 2018


                                  CI HANNO CAMBIATI.

   E’ cambiato il tempo. Da un secolo all’altro. Ed è cambiato il mondo e  siamo cambiati noi. Anzi ci hanno cambiati. Avevamo bisogno di poco ed ora ci hanno indotti ad avere bisogno di molto, sempre di più, senza poterci accontentare mai. E non abbiamo più quiete, non abbiamo più pace.
    Erano altri tempi. Ero ragazzo, anche più grande, e andavo con le pecore. D’inverno mi bastava un pezzo di pane con un pezzetto di formaggio o  quattro fichi secchi. Non avevo neanche il cappotto, e non morivo di freddo. Guardavo il sole e l’ombra di un albero o di una siepe per sapere l’ora che m’interessava. Se era nuvoloso o pioveva, interpretavo l’ora a seconda dell’intensità della luce del giorno. A nessuno di noi serviva l’orologio.
   Solo una volta mi feci prendere dall’oscurità ancora con le pecore al pascolo, e tornai a  casa che era già notte fonda. Ma pioveva da vari giorni, giorno e notte, con ramate di pioggia che si susseguivano secondo le nuvole spinte da folate del vento di ponente; ed io mi riparavo dall’acqua per l’intera giornata accucciandomi e tenendo basso l’ombrello per parare gli scrosci sventagliati di taglio. Senza un tuono o un lampo, perché era di novembre; ed allora i temporali cominciavano sempre di marzo, sempre col “primo tuono di marzo”, come allora si diceva, fino a tutta l’estate. Poi pioveva, pioveva solamente, durante l’autunno e l’inverno, senza tuoni né lampi.
   Ora è cambiato anche il tempo, tuona sempre, d’estate e d’inverno, e non ci si capisce più niente.  Non si capisce più niente con le stagioni, ma non si capisce più niente neanche con la frutta e gli ortaggi. D’inverno nei negozi si vendono i pomodori e i carciofi e le zucchine, poi con la primavera e l’estate, trovi le mele e le pere dell’anno prima. C’inducono a comprare sempre primizie, sempre contro stagione. E quando è la stagione, già siamo stanchi di mangiare pomodori e carciofi.
  Ci hanno indotto in sempre più nuovi bisogni; bisogni che allora ci apparivano impensabili. E corriamo guardando l’orologio perché non abbiamo più tempo. E vogliamo tutto subito, sempre più subito, in poche ore vogliamo arrivare in capo al mondo, anche se dopo arrivati non sappiamo più che fare. Come vedo tanti che con le macchine corrono a tavoletta e poi li trovi fermi davanti a un bar annoiati e soli.  
  Allora si comunicava lontano  con le lettere e le cartoline per i saluti, si attendevano le risposte con pazienza e si cantava e si rideva. Ora le persone parlano con i cellulari, si affannano a dire sempre le solite chiacchiere: sembrano matti che parlano da soli camminando per la strada. Si vuole dire subito tutto e forse non si pensa  neanche a quello che si dice. Ma intanto tutti parlano delle solite chiacchiere banali, che invadono il mondo nell’etere, sulla carta, dappertutto. E solo pochi sanno stare zitti.
   Allora camminavamo a piedi, e molti non avevano neanche le scarpe buone per camminare. E le gite erano quelle in campagna, o fuori porta, come si diceva a Roma. Solo i maschi che erano partiti per il militare e e per la guerra e quelli che un tempo erano emigrati raccontavano di luoghi lontani. Quasi tutti, specialmente le donne, vivevano, lavoravano, stavano per tutta la vita lì dove erano nati, morivano lì senza mai vedere altro posto, neanche un paese vicino, magari per andarci alla fiera.
   Ora tutti vogliono andare in giro per il mondo, in  vacanza, tutti corrono per vedere altri luoghi come se tutti fossero ricchi, anche quelli che non hanno i soldi e fanno prestiti per prendere l’aereo o pagare l’albergo a mille chilometri lontano. E corrono e corrono guardando le strade, i monumenti, i resti delle più antiche civiltà così come si sfogliano e si guardano raccolte di cartoline o come le figure che scorrono sullo schermo  di un televisore standosene seduti a casa. Solo che fanno le foto ad ogni passo con il palmare  e se le portano a casa solo per far vedere dove sono stati.
  E sono contenti perché hanno visto. Perché poi ricordano solo figure di edifici e di strade; e qualche sensazione, magari di fame, di sete, di stanchezza.  Ora si va per il mondo perché ci hanno indotto anche il bisogno di vedere, di fare turismo, per lo sviluppo culturale, come dicono loro. Sicuramente si sviluppa l’industria turistica; e corrono rivoli e fiumi di soldi. Così la gente ha sempre più l’ansia di correre e non si accorge del tempo che passa.   
   Ricordo i vecchi del mio paese che si mettevano al sole d’inverno, all’ombra d’estate; ed erano assorti ad ascoltarsi di dentro, perché avevano assaporato il loro tempo, l’avevano vissuto ascoltandolo minuto per minuto nel loro silenzio e nelle loro attività, nelle loro amicizie, nelle loro emozioni, nei loro canti distesi, nei loro momenti di attesa, di silenzi, di dolore e di raccoglimento. Avevano davvero vissuto, di dentro, perché avevano avuto tempo, senza l’ansia di correre guardando l’orologio.
  A settant’anni sentivano di aver accumulato fatti e sentimenti ed erano stanchi di vivere, sentivano di essersi riempiti della propria esistenza, di quella dei cari e della gente con cui avevano cantato, riso insieme in allegria, lavorato, sofferto in confidenza.
   Noi invece dobbiamo correre, dobbiamo sempre andare di fretta, per arrivare presto, per andare e per tornare. Io non ci capisco più. La vita non può essere una affannosa rincorsa del tempo. Invece potrebbe essere vissuta quasi fermando il tempo dentro di noi, con i nostri pensieri e con le nostre emozioni.
   Ma hanno inventato una vita in cui il tempo ci sfugge e non lo troviamo più. Perché dobbiamo produrre sempre di più e consumare sempre di più, pagando sempre più tasse. E invece di vivere nei fatti del presente, ci fanno vivere nelle illusioni delle immagini del cinema e della televisione.   
   Non abbiamo più neanche la socialità che arricchiva noi del passato. Siamo soli, con le immagini umbratili delle figure in televisione, con i twitter, i trilli e gli squilli dei nostri maledetti ma a volte preziosi telefonini.
   Siamo soli e affannati. E questo lo chiamano progresso . Penso invece che ci abbiano rubato il tempo. Il tempo nostro. E non sappiamo più come fare per vivere un momento di vita allegra e spensierata. Magari senza fretta,  anche se  solo con un pezzo di pane e dentro un silenzio che ci faccia sentire di essere vivi. Vivi per noi stessi e non per un lavoro cui ci costringono altri,  solo per avere una paga che ci faccia esistere in un mondo senso.

lunedì 23 aprile 2018


                                   25 APRILE  2018

  Per quanto i ricordi siano impressi profondamente per antiche emozioni vissute,  pure gli anni che passano li sfumano e quasi li fanno sparire. Ma a volte bastano solo pochi stimoli per poter riflettere ancora su vecchi avvenimenti.
   Ciò mi accade per molti episodi del passato. E mi accade anche ad ogni 25 aprile, una ricorrenza che mi vive ancora dentro e che  ogni anno mi  rinnova il senso di soddisfazione per la fine del massacro di quella guerra.
   Veramente, l’entusiasmo, l’esaltazione, il respiro di sentirmi libero li avevo già provati l’otto giugno dell’anno prima, cioè nel 1944, quando i tedeschi si ritirarono dai miei luoghi, sotto la pressione delle forze alleate, dopo la rottura del fronte di Cassino e quattro giorni dopo la liberazione di Roma.
   Ora, dentro i ricordi di quei fatti sfocati dal tempo, provo un po’ di malinconia nel cogliere il naturale affievolimento dei sentimenti connessi ad un avvenimento storico che fu così significativo da fissarsi nello spirito del popolo e da caratterizzare  l’avvio della trasformazione del nostro Stato, dallo statuto albertino alla costituzione repubblicana..
    Il sentimento che però si è fatto largo in me nel corso dei decenni trascorsi è quello di tristezza avvertito sin dal 1946, nel vedere i fascisti che avevano appena smesso la camicia nera ricollocarsi nei nuovi partiti antifascisti, specialmente dopo l’amnistia concessa loro da Togliatti. Una tristezza resa più acuta poi, molti anni dopo,  nel conoscere le vicende  del cosiddetto “armadio della vergogna”.
   Un  sentimento che si è fatto amarezza profonda, che non si ricollega però alla Resistenza, ma alla Liberazione, proprio al termine che definisce la festa del 25 aprile, in quanto dicitura che genera ambiguità.
   Infatti la Resistenza è nostra ed è contrassegnata dal nostro orgoglio, per cui il 25 aprile dovrebbe essere definita la festa della Resistenza e non della Liberazione, che può intendersi sia liberazione da parte della nostra Resistenza, sia liberazione da parte dell’ esercito alleato.
   Infatti la Liberazione è il termine passato più ad indicare  l’operazione condotta dall’esercito alleato che non  l’azione sviluppata da una parte del popolo italiano contro i fascisti e i tedeschi. Sicché questo modo di considerare i fatti ha consentito di indicare la liberazione condotta dalla Resistenza come guerra civile combattuta tra due fazioni. E questo mi fa provare  sempre più amarezza.
    Ma la liberazione condotta dagli Alleati non fu invece occupazione da parte di un esercito non più nemico ma non ancora e forse mai diventato amico?
   Noi allora non la volevamo vedere così, cioè come occupazione, perché era troppo grande l’entusiasmo per la libertà riconquistata. Riconquistata, e non regalata! Ma il dubbio ci serpeggiava sin dai primi tempi, quando ci reclutavano per i servizi di cooperazione e ci pagavano con le Amlire!
    Il dubbio aumentò subito poi con le vicende del separatismo siciliano, per cui gli isolani vagheggiavano di diventare la quarantanovesima stella degli USA. sicché il movimento  pareva imporsi stranamente anche  con la banda Giuliano.
   Cosa davvero strana, quella del separatismo. Strana specialmente per noi di sinistra, che potevamo spiegarci quella realtà con le nostre idee contrarie a certi discorsi ed a certi avvenimenti, poiché eravamo sempre più critici nei confronti degli americani e degli inglesi. E in seguito ce lo provarono le basi militari americane concesse dal Governo, o stabilite dalle condizioni imposte dal trattato di pace.
    Mi sono sempre più convinto che la liberazione l’avremmo potuta fare noi italiani da soli sin dall’otto settembre del ’43 se non ci fosse stato il disfacimento del nostro esercito con la fuga del Re e dei capi militari, cioè se non ci fossero stati due misteri forse collegati fra loro e che ancora non si riescono a sciogliere: perché il Re riuscì a fuggire senza essere attaccato dai tedeschi e a giungere incolume a Brindisi? Come fu liberato o sequestrato  Mussolini sul Gran Sasso, senza che ci fosse stata una pur minima reazione dei suoi custodi? Davvero non c’è stata alcuna correlazione tra i due avvenimenti?
   Ipotesi e misteri che comportano dubbi. Ma anche tanta, tanta amarezza in chi crede nelle idee che stanno un po’ più su delle miserie delle vicende umane e, specialmente, delle azioni dei Capi!

sabato 17 marzo 2018


Pubblico qui di seguito questa poesia tratta dal mio
PAGINE DISSEPOLTE auto edito da Youcanprint.

LA BEFANA E BABBO NATALE
 (Composi questa mia poesia ironica nel 1977, quando negli atenei ancora si discuteva del sei politico, da tre anni erano in vigore i Decreti Delegati Malfatti, fu soppressa la festa dell’Epifania, ed io insegnavo nella scuola elementare)

Soffia il vento nella notte:
Dentro il mondo scuro scuro
Chi si arrampica sul muro?
Chi cammina quatto quatto
Sulle gambe come un gatto
Sulle tegole del tetto?
                  Soffia il vento nella notte!

Forse, forse è la Befana,
La Befana della nonna,
Che va in cerca del camino
Per portare ad un bambino
I suoi doni nelle calze,
Nelle calze a buchi e a toppe?
                 C’è la luna nella notte!

Sulla scopa va la Vecchia,
Va la Vecchia brutta e nera;
Cerca, cerca sopra il tetto,
Ma non trova il caminetto
Per discendere al lettino,
Dove un bimbo sogna e dorme.
                Stan le stelle nella notte!

Brutta strega, la Befana
Sa i cattivi e quelli buoni,
Riconosce quelli attenti,
Quelli bravi nella scuola
Ed a questi porta i doni,
Ma a quegli altri, ai più cattivi
Porta cenere e carboni
Nelle calze a buchi e a toppe.
                    Punge il gelo nella notte!

Brutta strega, vecchia, antica,
Tutta rughe, senza denti,
Tutta occhi sempre intenti
A guardare chi fa bene,
A guardare chi fa male,
Per portare al più birbone
Solo cenere e carbone
Nelle calze vecchie e rotte!
                  Gufa il gufo nella notte!   

Fuori! Fuori la Befana,
La vecchiaccia d’altri tempi!
Dalle case sia bandita!
Non vogliamo ch’essa giudichi
Chi fa bene e chi fa male,
Non vogliamo che il più buono
Sia distinto dal furfante!
                  Va la volpe nella notte.

Siamo uguali e non vogliamo
Che al pigrone, che al cattivo
Venga detto che sia tale,
E vogliamo che chi studia
E sui libri sgobba assai
Al somaro resti uguale.
                Tutto tace nella notte.

Fuori! Fuori! La Befana
Sia beffata, sbeffeggiata,
Sia derisa, sbertucciata,
Sia schernita, sia bandita,
Maltrattata, sia punita,
Sia punita con le botte,
Sia cacciata in una tana
Con la testa e le ossa rotte!
              Soffia il vento nella notte.

Venga qui Babbo Natale,
Che col candido barbone
Assomiglia ad un caprone!
Sarà sempre applaudito,
Perché vecchio e rimbambito
Non distingue il più poltrone,
Non distingue il buono a nulla,
Porta i doni a tutti quanti,
Sia ai buoni che ai birbanti!
               Venga qui col suo mantello,
               Suoni, suoni il campanello.  

Venga, venga, e qui ci vuoti
Tutto intero il suo gran sacco:
Tu ti prendi quel cartoccio,
Io mi prendo quel gran pacco,
Lui si prende quel fantoccio,
Quel si prende il suo trenino.
Con lui sì che siamo amici,
Siamo uguali e anche felici!
                Venga presto dal monello,
                 Suoni, suoni il campanello!

Che c’importa, che c’importa
Se ci credono marmocchi
Tutti furbi e intelligenti?
Siamo ormai tutti Pinocchi
Nel paese dei balocchi,
Senza voti né qualifica,
Con soltanto la verifica
Nel rapporto con noi stessi:
Sia piccini che più grossi
Siamo ormai tutti promossi!
                 Suoni, suoni il campanello,
                 Ché gli apra quel monello!

Venga ognor Babbo Natale
Con quel candido barbone,
Col faccione gioviale,
Con l’aspetto di caprone!
Viva! Viva! Ci voleva
Un signore cosiffatto,
Un signore mentecatto,
Un signore che non vede
Ora il mondo com’è fatto!
                Venga presto dal monello,
                Suoni, suoni il campanello!

Venga qui Babbo Natale,
Qui nel mondo degli uguali,
Coi suoi doni si cancelli
Ogni segno di bravura,
Che il più sveglio lo gratifica
E il pigro lo mortifica:
Siamo tutti a una misura
Per rispetto della logica,
A dispetto del buonsenso
Che ci dona la natura!
               Venga presto dal cancello,
               Suoni, suoni il campanello!

Ma via vada questo falso
Giramondo di babbeo,
Che confonde col Natale
Lo scherzoso Carnevale!
Lasci il mondo tale e quale
Con i doni per i ricchi
E la fame dentro agli occhi
Dei più poveri; e non tocchi
Nelle tasche di chi ha
Qualche cosa, in carità!
             Suoni pure il campanello,
              Ma via vada quel cialtrone
              Col suo stupido cappello!

Vada, vada e a tutti dica:
Viva, viva i marmocchini!
Viva, viva i più cretini!
Viva, viva il fannullone
E chi vive e non lavora,
E chi in testa non ha idee
O le manda alla malora!
Dica, dica: Noi fondiamo
Una nuova società,
Che ha il suo fine nel progresso
Della nostra asinità!
                 Entri pure quel cialtrone,
                 Avrà calci nel sedere
                 E legnate sul groppone!           


domenica 11 marzo 2018


                  SCUOLA  LIBERTÀ  PERMISSIVISMO E…

   Leggo e ascolto notizie sulla scuola. Aggressioni di genitori ed allievi a maestre e professori, denunce, processi, fatti variamente incresciosi. Sbalordisco, mi si accappona la  pelle di vecchio alunno, maestro, direttore didattico.
   Mi tornano in mente ricordi e immagini: col mio grembiule come alunno, come maestro fra i banchi delle aule ad insegnare, come direttore didattico con maestri e maestre che venivano da me per espormi i più svariati problemi educativi che avevano  con i loro alunni, nonché per chiedere permessi e congedi, in un ambito di intesa, di collaborazione, di legalità mai arcigna.
   Non era sempre così, non erano sempre rose, affioravano qualche volta malcontenti e brevi e piccole discordie. Ma la scuola era la scuola! Le famiglie erano ai margini, quasi come sul sagrato, sui limiti di rispetto per la scuola, verso cui avevano stima, contribuendo con atteggiamenti ed esempi a valorizzarne l’opera educativa, esprimendo  ossequio e gratitudine verso coloro che operavano per educare e migliorare i loro figli.
  Infatti allora la scuola doveva essere ed era un ambiente educativo sereno, in cui gli alunni dovevano e potevano avere fiducia, per avere poi fiducia da grandi anche nella società e nello Stato. Infatti, quando un insegnante entrava in aula, essi si levavano in piedi, ammutolivano in segno di rispetto. E gli insegnanti potevano ed avevano l’obbligo di  richiamarli all’ordine, alla buona educazione, all’igiene della persona, alle norme di comportamento e all’apprendimento, poiché era loro assegnato prima di tutto un compito educativo.
  Questa era la scuola in cui gli alunni dovevano acquisire soprattutto il senso di responsabilità con i loro apprendimenti e  comportamenti verso se stessi, verso la società e verso lo Stato, per diventare persone responsabili e cittadini liberi.
   Questa era la scuola dentro una società che poggiava su capisaldi  quali la libertà, la responsabilità, la comunità.
   In riferimento alla libertà, oggi non mi pare che nella società ci sia la libertà di cui tutti cianciano; mi pare invece che ci sia la licenza, che troppi scambiano per libertà. E ciò si riflette nella scuola in cui famiglie ed alunni credono che gli operatori scolastici stiano alle loro dipendenze anziché al servizio dello Stato.
   In riferimento alla responsabilità, oggi non mi pare che si sentano esigenze di responsabilità, invece sono troppi quelli che esigono l’irresponsabilità nella permissività, l’ambiguità morale nella licenza. E a noi, usciti dalla Resistenza e dalla vecchia scuola, la licenza e il permissivismo educativo e sociale al posto della libertà e della responsabilità dolgono, fanno davvero male.
    In riferimento alla comunità, si può affermare che essa sia davvero venuta meno. Una volta  si    parlava di società educante. Ma la società è divenuta “liquida”, come dice un grande sociologo, almeno è divenuta “sfarinata”, come a me piace dire. Infatti non può esserci una comunità se s’impone un  modo individualistico di vita, se ognuno pretende che gli altri siano a suo servizio, che il rapporto con gli altri sia nell’indifferenza, se  gli altri siano comunque e sempre controparte, avversari, addirittura nemici. E ciò si riflette assai negativamente sulla vita e sull’opera della scuola.
   Se non c’è comunità non ci può essere educazione. Perciò da alcuni decenni coloro che possono hanno voluto l’istruzione, poi, peggio, hanno voluto la formazione, ed hanno parlato sempre meno di educazione.
   Senza educazione prevalgono gli egoismi e si mettono gli uni contro gli altri, la famiglia contro la scuola,  gli individui contro la comunità, contro le regole della comunità e della società, e, alla fine, le leggi dello Stato sono ostacoli da aggirare, da eludere, se non da contrastare.
  Senza la comunità, senza il senso di responsabilità non si dà valore alla libertà e non c’è futuro. Non c’è futuro per la scuola né per l’educazione, non c’è futuro per i giovani né per il popolo, Con le contrapposizioni dentro la scuola,  con l’istruzione  senza l’educazione non c’è futuro per il bene del popolo;  c’è solo il futuro per i pochi, i pochi che hanno e che possono perché hanno.
  Se si vuole indebolire e neutralizzare l’opera educativa della scuola con la false  e ipocrite motivazioni della sua democratizzazione e dell’affermazione della libertà degli alunni, si finisce col corrodere concretamente la democrazia, col tradire le nuove generazioni rese più facilmente manipolabili e col minare la solidarietà che caratterizza una  vera comunità. È davvero troppo!