venerdì 12 agosto 2016

                                  CI HANNO CAMBIATI.

   E’ cambiato il tempo. E’ cambiato il mondo. Siamo cambiati noi. Anzi ci hanno cambiati. Avevamo bisogno di poco ed ora ci hanno indotti ad avere bisogno di molto, sempre di più, senza accontentarci mai. E non abbiamo più quiete, non abbiamo più pace.
    Io allora ero ragazzo e andavo con le pecore. D’inverno mi bastava un pezzo di pane con un pezzetto di formaggio o  quattro fichi secchi. Non avevo neanche il cappotto, e non morivo di freddo. Guardavo il sole e l’ombra di un albero o di una siepe per sapere l’ora che m’interessava. Se era nuvoloso o pioveva, interpretavo l’ora a seconda dell’intensità della luce del giorno. A nessuno di noi serviva l’orologio.
   Solo una volta mi feci prendere dall’oscurità ancora con le pecore al pascolo, e tornai a  casa che era già notte. Ma pioveva da vari giorni, con ramate di pioggia che si susseguivano secondo le nuvole spinte da folate del vento di ponente; ed io mi riparavo dall’acqua per l’intera giornata accucciandomi e tenendo basso l’ombrello per parare gli scrosci sventagliati di taglio. Senza un tuono o un lampo, perché era di novembre; ed allora i temporali cominciavano sempre di marzo, sempre col “primo tuono di marzo”, come allora si diceva, fino a tutta l’estate.
Poi pioveva, pioveva solamente, durante l’autunno e l’inverno, senza tuoni né lampi.
   Ora è cambiato anche il tempo, tuona sempre, d’estate e d’inverno, e non ci si capisce più niente.  Non si capisce più niente con le stagioni , ma non si capisce più niente neanche con la frutta. D’inverno nei negozi si vendono i pomodori e i carciofi e le zucchine, poi con la primavera e l’estate, trovi le mele e le pere dell’anno prima. C’inducano a comprare sempre primizie, sempre contro stagione.
  Ci hanno indotto sempre più nuovi bisogni; bisogni che allora ci apparivano impensabili. Corriamo guardando l’orologio perché non abbiamo più tempo. E vogliamo tutto subito, sempre più subito, in poche ore vogliamo arrivare in capo al mondo, anche se dopo arrivati non sappiamo più che fare.  
  Allora si comunicava lontano  con le lettere e le cartoline per i saluti, si attendevano le risposte con pazienza e si cantava e si rideva. Ora le persone parlano con i cellulari, si affannano a dire sempre le solite chiacchiere:  sembrano matti che parlano da soli camminando per la strada. Si vuole dire subito tutto e forse non si pensa  neanche a quello che si dice. Ma intanto tutti parlano delle solite chiacchiere banali, che invadono il mondo. E solo pochi sanno stare zitti.
   Allora camminavamo a piedi, e molti non avevano neanche le scarpe buone per camminare. E le gite erano quelle in campagna, o fuori porta, come si diceva a Roma. Solo i maschi che erano partiti per il militare e quelli che un tempo erano emigrati raccontavano di luoghi lontani. Molti, specialmente le donne, vivevano, lavoravano, stavano per tutta la vita lì dove erano nati, senza mai vedere altro posto, neanche un paese vicino, magari per andarci alla fiera.
   Ora tutti vogliono andare in vacanza, tutti corrono per vedere il mondo, anche quelli che non hanno i soldi e fanno prestiti per prendere l’aereo o pagare l’albergo a mille chilometri lontano. E corrono e corrono guardando le strade, i monumenti, i resti delle più antiche civiltà così come si sfogliano e si guardano raccolte di cartoline o come le figure che scorrono sullo schermo  di un televisore standosene seduti a casa. Solo che fanno le foto ad ogni passo con l’ipad  e se le portano a casa solo per far vedere dove sono stati.
  E sono contenti perché hanno visto. Perché poi ricordano solo figure di edifici e di strade; e qualche sensazione, magari di fame, di sete, di stanchezza.  Ora si va per il mondo perché ci hanno indotto anche il bisogno di vedere, di fare turismo, per lo sviluppo culturale, come dicono loro. Sicuramente si sviluppa l’industria turistica; e corrono rivoli e fiumi di soldi. Così la gente ha sempre più l’ansia di correre e non si accorge del tempo che passa.   
   Ricordo i vecchi che si mettevano al sole d’inverno, all’ombra d’estate; ed erano assorti ad ascoltarsi di dentro, perché avevano assaporato il loro tempo, l’avevano vissuto ascoltandolo minuto per minuto nel loro silenzio e nelle loro attività, nelle loro amicizie, nelle loro emozioni, nei loro canti distesi, nei loro momenti di attesa, di silenzi, di dolore e di raccoglimento. Avevano davvero vissuto, perché avevano avuto tempo, senza l’ansia di correre guardando l’orologio.
  A settant’anni sentivano di aver accumulato fatti e sentimenti ed erano stanchi di vivere, sentivano di essersi riempiti della propria esistenza, di quella dei cari e della gente con cui avevano cantato, riso insieme in allegria, lavorato, sofferto in confidenza.

   Noi invece dobbiamo correre, dobbiamo sempre andare di fretta, per arrivare presto, per andare e per tornare. Io non ci capisco più. La vita non può essere una affannosa rincorsa del tempo. Invece potrebbe essere vissuta quasi fermando il tempo dentro di noi, con i nostri pensieri e con le nostre emozioni. Ma hanno inventato una vita in cui il tempo ci sfugge e non lo troviamo più. Perché dobbiamo produrre sempre di più e consumare sempre di più, pagando sempre più tasse. E lo chiamano progresso. Penso che ci abbiano rubato il tempo. E non sappiamo più come fare per vivere un momento di vita allegra e spensierata. Magari senza fretta,  anche se  solo con un pezzo di pane.