venerdì 31 marzo 2017

                       TERZO ATTACCO AEREO

   In uno degli ultimi giorni di marzo del 1944, non ricordo quale di preciso, in una giornata meravigliosa come erano quelle delle primavere di quel tempo, io e mio fratello stavamo a diboscare una piccolissima macchia che occupava un angolo del nostro podere. Lo facevamo soprattutto con la vanga, scassando il terreno per due fitte, ma anche con la pala per rimuovere la terra scavata, e con l’accetta per tagliare le radici più grosse di alcune quercette. C’erano anche un mio cugino e un bambino che mio fratello si era portato perché figlio di un suo amico romano.
  Era passato solo qualche giorno dal secondo attacco aereo e noi lavoravamo serenamente. Verso le dieci sentimmo un rombo continuo nel cielo; guardammo e vedemmo arrivare dalle parti di Montorio ventiquattro bombardieri alleati. Mentre li guardavamo arrivare quasi sopra di noi per capire dove fossero diretti, vedemmo un segnale di fumo nero lanciato dall’aereo di testa e subito mio fratello e mio cugino che erano reduci di guerra gridarono: A terra! A terra! E ci buttammo tutti nella fitta dello scassato, uno dietro l’altro, e il bambino sotto mio fratello che lo proteggeva.
  Passò solo qualche secondo prima di sentire i fischi nell’aria delle bombe che cadevano e poi gli scoppi e  boati che facevano tremare la terra per i depositi di tubi di gelatina e di tritolo che saltavano in aria e che erano nascosti tra gli ulivi poco prima del cimitero: un bombardamento non più come quelli sentiti ogni giorno da lontano, ma un bombardamento vicino, a non più di alcune centinaia di metri da noi, anche se noi li sentivamo appena al di là dalla collina.
  Andati via gli aerei, noi sentivamo ancora  un continuo scoppiare di proiettili nei depositi nascosti negli uliveti che fiancheggiavano la Maremmana e che non erano stati colpiti direttamente dal bombardamento: forse i proiettili scoppiavano l’uno dopo l’altro per surriscaldamenti successivi.
  Noi avevamo paura che gli aerei tornassero ancora per una nuova ondata e perciò corremmo a ripararci sotto un greppo di cappellaccio, residuo di una vecchia cava di pozzolana. Vi restammo per quasi un’ora, perché gli scoppi  non accennavano a cessare.
   Io e mio cugino allora uscimmo dal riparo per vedere in direzione degli scoppi e renderci conto della situazione, ma in quel momento ci fu una fiammata così grande che sembrava  incendiare il cielo sopra la nostra collina, e un boato secco fece tremare la terra. Ci buttammo di nuovo sotto  il greppo di cappellaccio e sentimmo nell’aria sopra di noi fischiare cose che andavano a cadere sulla collina opposta.
  Che cosa era successo lo sapemmo dopo: era scoppiato il casale isolato  in un campo di  ulivi a fianco della Maremmana, nel cui primo piano era alloggiato il comando tedesco della zona e nel piano terra era collocato  un deposito di tritolo.
  Quelle cose  volate sopra di noi erano piccoli blocchi di cemento, il catenaccio della porta e altri pezzi di ferro e pietra, mentre pezzi di travi contorti e un torchio erano volati  ad alcune centinaia di metri dal luogo dello scoppio.
   In seguito sapemmo che i tedeschi del comando urlavano disperati dalle finestre del casale, ma non potevano fuggire e scampare per la grande quantità di proiettili che scoppiavano loro intorno. Con lo scoppio del deposito di  tritolo  al piano terra essi  si volatilizzarono assieme al casale, al cui posto rimase una buca enorme e profonda diversi metri.
 Poi sapemmo che poco più lontano da quel luogo  erano stati colpiti dalle bombe e morirono due miei coetanei del mio paese, che si erano recati la mattina per lavoro nei campi.









venerdì 24 marzo 2017

SECONDO ATTACCO AEREO

   Quel primo attacco aereo che aveva fatto esplodere un deposito di carburante lungo la strada di Montelibretti evidentemente fu un avvenimento che ci segnò, perché gli alleati scoprirono le strade intorno cui i tedeschi tenevano nascosti i depositi di carburante, di dinamite e tritolo e di grossi proiettili per il rifornimento del fronte di Cassino.
   Dopo qualche giorno infatti, non ricordo in quale degli ultimi di marzo, io e mio fratello stavamo a “Sandunicola” e in quel momento parlavamo con un confinante, che vangava il suo campo  di là dalla siepe di confine col nostro podere.
   Improvvisamente , venendo dalla parte di Montorio, si lanciarono a bassa quota sopra di noi due cacciabombardieri inglesi, che fecero un giro e poi sempre più a bassa quota ci mitragliarono quasi a falciare con i proiettili rasoterra.
  Noi corremmo a perdifiato a ficcarci dentro una grotta di pozzolana poco distante, dove giunse pure il nostro confinante, che aveva saltato la siepe e corso alla disperata. Intanto i cacciabombardieri avevano fatto un altro giro, ma questa volta  sganciarono diversi spezzoni, che, scoppiando, fecero tremare la terra e la grotta.
  Dopo che era finito l’attacco, notammo che due schegge avevano fatto due buchi nelle lamiere di copertura del casaletto e che vari spezzoni erano scoppiati qua e là radendo con le schegge la terra e squarciando i fusti dei nostri giovani olivi. Un grappolo di sei spezzoni invece non era esploso ed era infisso a quasi un metro sotto terra in mezzo all’erba e a una cinquantina di metri da noi.
  E’ strano che allora io non mi chiedessi perché mitragliassero noi che eravamo in mezzo alla campagna, percorsa solo da mulattiere. Eppure non potevano prenderci per tedeschi: perché volevano sparare a noi in mezzo alle campagne? Perché miravano a noi che stavamo vangando? Perché spezzonavano i nostri campi? Me lo chiedo ancora adesso.
   Evidentemente allora non me lo chiesi, perché vedevamo come nemici solo i tedeschi e non potevamo pensare che i piloti inglesi ci percepissero ancora come loro nemici. Altrimenti perché ci dovevano sparare in mezzo alla campagna?
   Strana situazione la nostra di quei giorni. E veramente tragica.


lunedì 13 marzo 2017

                           PRIMO ATTACCO AEREO

   Da settembre del ’43 i tedeschi erano anche nel nostro paese, sempre più odiati, e   noi sempre più in allarme per sfuggire alle loro retate improvvise. Solo un po’ di fascisti potevano guardarli con simpatia, alcuni con complicità.
   Infatti, comunemente non li avevamo mai sopportati, perché i nostri genitori avevano combattuto contro di loro sull’Isonzo e sul Piave e per vent’anni ci avevano raccontato delle loro battaglie e del gas che avevano buttato nell’offensiva di Caporetto. Tutta la propaganda e la retorica di Mussolini erano solo riuscite a sopire ma non a cancellare l’antipatia e l’antico rancore che avevamo per loro.
  In quei mesi d’inverno del ‘43, per tutti noi non era stata una vita serena, con la scarsa disponibilità dell’elettricità e con le luci spente per il coprifuoco, tanto che la sera ci si muoveva con i tizzoni come nel medioevo, con la penuria dei cibi, e i boati dei bombardamenti lontani e le minacce di retate dei tedeschi. Ma prima con lo sbarco di Anzio avvenuto da poco, poi con  le notizie che si captavano di nascosto da Radio Londra, ai primi fiori di marzo ci si aprivano speranze per uscire definitivamente dall’incubo in cui eravamo precipitati.
   Noi del paese andavamo in campagna come sempre.  Anche quel giorno degli ultimi di marzo, io, mio fratello e mio padre ci eravamo andati.  Era una giornata bellissima, come erano le giornate di primavera di quegli anni. Come erano stati belli i giorni precedenti, benché turbati dai tanti avvenimenti di guerra, che però a noi sembravano lontani, anche se avevamo vicino i depositi di bombe e sopra di noi passavano ogni giorno veloci caccia e lenti stormi di quadrimotori che facevano tremare la terra col rombo sordo e lontano dei loro motori.
    Quando passavano i quadrimotori, quelli detti”Fortezze volanti”, io mi mettevo a contarli nel cielo così come erano disposti a squadriglie. Se volavano più in basso, erano in genere ventiquattro o al massimo trentasei, allora il bombardamento avveniva di solito un po’ vicino, anche lungo la ferrovia Roma- Firenze; se ne contavo intorno a ottanta o centoventi, allora non solo si vedevano altissimi, ma poi il bombardamento avveniva abbastanza lontano, in direzione di Orte o di Civitavecchia.
  Quel giorno invece ero da solo a vangare e vidi improvvisamente due caccia angloamericani che da Montorio a bassa quota   saettarono oltre Montelibretti, uno dietro l’altro.  Subito dopo, il primo aereo fece una sventagliata di mitragliatrice: immediatamente  vidi innalzarsi un fiammata e poi una colonna di fumo. Poi vidi che il primo caccia fece un giro intorno alla zona del fumo, ma non vidi più l’altro aereo che lo seguiva e immaginai che la fiammata l’avesse inghiottito e arso.
  Difatti lo vidi dopo liberati, nell’estate , quando gli inglesi requisirono noi giovani per portarci  ogni giorno con i camion nelle scuderie di Montemaggiore per accudire muli e cavalli in cambio di poche Am-lire, con cui ci pagavano. Ogni volta che passavamo, vedevo la carcassa di quell’aereo poggiata fra gli ulivi a metà costa di una collina, sulla destra della strada prima di arrivare a Montemaggiore. E vi restò ancora per più di qualche anno, prima che  i contadini ne liberassero il terreno per i loro lavori.