domenica 21 febbraio 2016

                                            LUCREZIO

   Non di rado la parola atomo mi richiama alla mente Lucrezio. Non Epicuro, Democrito, Leucippo, ma proprio Lucrezio. Perché di questi altri filosofi atomisti ebbi notizie dopo,  quando cominciai a studiare la storia della filosofia per prepararmi all’abilitazione magistrale.
   Lucrezio invece l’avevo letto in parte, senza capire che ben poco del suo discorso filosofico. D’altra parte  l’avevo comprato scorrendo il catalogo di Sonzogno: non so con quale criterio scelsi il suo  “Della natura delle cose”  assieme a “Le nove muse” di Erodoto, a  “Le vite degli uomini illustri” di Plutarco, pubblicati  nella Biblioteca Classica Economica.
   Li avevo comprati a mezzo conto corrente postale con la miseria dei miei risparmi, privandomi di ogni pur piccola spesa voluttuaria, per leggerli al pascolo con le pecore o la sera dopo cena, come faceva mio padre con la “Divina Commedia” e con “Orlando furioso”.
   Li avevo comprati forse all’inizio della seconda guerra mondiale, perché volevo studiare, anche se non potevo andare alle scuole di Roma o di Tivoli, dove bisognava sostenere le spese per  un collegio o un alloggio in pensione. Compravo libri, ma  non sapevo neanche come e che cosa si dovesse studiare. Per questo poi mi sono abituato a leggere più  i testi che i manuali: un gran numero di libri, specialmente di autore classici, poi anche libri di saggi, fra cui non pochi  di filosofia.
   Dunque, quasi ogni volta che mi capita, la parola  atomo mi richiama  Lucrezio per quel libro. Ma Lucrezio mi richiama anche mio cugino che allora si faceva frate e studiava in seminario. Il padre l’aveva mandato in un convento di frati, ma solo per il tempo necessario per conseguire un titolo di studio, non per farne un uomo di chiesa. Era quello il modo usato in quel tempo da alcuni paesani che avevano l’ambizione di far studiare i figli senza averne le condizioni economiche sufficienti per sostenere le spese del collegio o di pensionato presso qualche famiglia a Roma o a Tivoli, dove erano le scuole oltre le elementari.
   Ma poi, nella vita conventuale, mio cugino sentì la vocazione per la vita religiosa e, per quanto suo padre cercasse di distoglierlo, si confermò sempre più nella sua volontà sacerdotale, sia proseguendone gli studi sia acquisendone la solita mentalità illiberale e intollerante.
   Un giorno che era tornato a salutare la nostra nonna materna, cui eravamo davvero ambedue affezionati, conversammo un po’, anche perché sapeva che io avrei voluto studiare e che leggevo dei libri. S’interessò soprattutto a ciò che io andavo leggendo, tanto più che egli oltre a frequentare il liceo, era più grande di me di alcuni anni e sentiva la capacità di guidarmi.
  Quando seppe che stavo leggendo Lucrezio, come vero frate, cercò subito di persuadermi a non leggerlo, poi, vedendo la mia determinazione, assunse il piglio proibitivo, quasi ancora si stesse ai tempi dell’inquisizione. Poi stranamente non me ne parlò più, e la sera se ne ripartì per il convento come era già stabilito.
   Qualche giorno dopo io ripresi in mano il mio Lucrezio tradotto in versi sciolti dal  matematico e poeta seicentesco Alessandro Marchetti, ma notai subito che qualche cosa non era più come prima. Lo sfogliai qua e là e finalmente  vidi che erano state tagliate ed asportate una quindicina di pagine. Lessi quanto c’era prima nelle pagine precedenti al taglio e poi quanto in quelle seguenti e mi resi conto con raccapriccio, che erano state tolte tutte le pagine in cui Lucrezio trattava della mortalità dell’anima.
  Capii tutto e la rabbia mi fece male di dentro, prendendomela con tutto l’oscurantismo pretesco e fratesco, ma specialmente con mio cugino:  se l’avessi avuto vicino come minimo gli avrei strappato tutta la tonaca, anzi l’avrei menato. Tanta era la mia rabbia. Si può anche tentare d’imporre le proprie idee, ma non si può rovinare un libro. Questo è intollerabile.
   Tuttavia, passati alcuni anni e ricompratomi il De rerum natura, non solo mi passò la rabbia e non solo mio cugino dimenticò l’episodio, ma tornammo amici, anzi lui poi mi aiutò procurandomi l’ospitalità del suo convento nel periodo per i miei esami da privatista per l’abilitazione magistrale. E di questo gliene sono sempre grato. Anche se non ho mai dimenticato lo strappo di quel libro per me prezioso come tutti i libri, anche se in edizione poverissima.




martedì 9 febbraio 2016

          VECCHIE  E NUOVE TECNICHE DI PRODUZIONE

   Guardo la televisione e sono sbalordito. Si vedono nuovi modi di coltivare e di produrre. Non so che  cosa  pensare e immaginare per l’avvenire.  Il vecchio lavoro dei campi è solo residuale, sparisce con i vecchi contadini che se ne vanno anno dopo anno. Il nuovo lavoro dei campi è quello di un’agricoltura sempre più tecnologica. Le colture idroponiche sono forse solo avvisaglie di applicazioni scientifiche sempre più avanzate. Le coltivazioni possono addirittura fare a meno delle campagne.
   L’agricoltura si è industrializzata.  Le innovazioni impiegate sono sempre più avanzate, con metodi e strumenti che noi vecchi non possiamo immaginare, perché sono studiati anche in prospettiva aerospaziale, non solo per il terreno dove poggiamo i piedi. A leggerne, ci appaiono così spettacolari che non si può che restare incantati.
  Già, perché io mi rivedo da ragazzino a guardare una decina di cavalli che, tenuti con lunghe funi  da un uomo al centro, giravano sull’aia a pestare con gli zoccoli le fave da trebbiare. E mi rivedo poi più grande, proprio come un’infinità di contadini, faticare un mondo per falciare l’erba e farne fieno, a mietere il grano con u surricchju (falcetto)  e le cannelle (pezzi di canna in cui infilare le dita della mano sinistra per proteggerle da tagli per incauti movimenti del surricchju con la destra) e le cupelle ( contenitori in legno a forma di bariletti di due o tre litri per mantenere l’acqua o il vino freschi per quanto possibile, comunque per evitare la fragilità del vetro delle bottiglie e dei fiaschi). 
  Mi rivedo anche a vangare il terreno, poi con la zappa a fare le cofe (piccole buche in cui porre a dimora alcuni semi di fagioli, di ceci o d’altro) poi ancora a zappare le piantine di fagioli e di granturco (zzappa’ i facioli e ‘o randurcu) poi ancora  a rincalzare le piantine ormai cresciute (rengasola’ i facioli e ‘o randurcu) e poi ancora, al raccolto, mi rivedo sull’aia improvvisata e provvisoria a battere i fagioli col correggiato (a bbatte i facioli co’ u mazzafrustu) e poi ancora a ventilarli (congialli) per pulirli dai residui dei baccelli secchi che il vento accumulava a bordo dell’aia.
   Certo, allora si coltivavano campi caratterizzati dalla piccola proprietà contadina, in cui è tuttora difficile introdurre metodi di coltivazione  appartenenti a  quel processo di industrializzazione adeguato ad estensioni ragguardevoli di terreni, d’altra parte non facilmente applicabile anche perché variamente accidentati.
   Ripenso anche alle galline che allora facevano parte integrante della nostra economia autarchica su cui si basava la vita familiare. Per la produzione delle uova bisognava aspettare il nuovo tepore primaverile, per poi esporle trionfalmente sulla tavola pasquale. E per i polli (i pollastri) dovevamo aspettare  che le galline si facessero chiocce per la cova come in “Valentino” del Pascoli:          
            Poi le Galline chiocciarono, e venne
              Marzo, e tu, magro contadinello,
              restasti a mezzo, così con le penne,
              ma nudi i piedi, come un uccello.
   Ora invece le galline sono allevate in capannoni illuminati e depongono le uova ogni giorno, anche duecento l’anno; e i pulcini vengono fatti nascere  senza le chiocce, con le incubatrici. Noi contadini allora lo vedemmo fare le prime volte nel convento dei Passionisti, ed eravamo meravigliati come davanti ad un’opera di magia.
  Ne abbiamo viste, però, poi tante altre. Ed ora, quando entro in un supermercato, rimango sempre un po’ dubbioso, sempre un po’ spaesato, come se improvvisamente e contemporaneamente mi trovassi in luoghi diversi e che stanno agli antipodi del mondo.
   Perché come settanta anni fa, ancora mi aspetto di trovare erbe e frutti di stagione, e invece trovo che nel supermercato le stagioni sono scomparse, perché in ogni giorno dell’anno trovo frutta e verdura di differenti stagioni, di ogni genere e di ogni provenienza: trovo insieme cocomeri, arance, uva e carciofi.    
   Perché nei campi non ci sono più né u mazzafrusto,u sappo’ (zappa) né a jocca pe cova’ l’ova (la chioccia per covare le uova) ma c’è ovunque l’industria con le nuove tecniche sbalorditive, che sembra facciano miracoli, ma che, secondo me, alterano e manipolano la natura e che a lungo andare forse snaturano e fanno male anche all’uomo.