martedì 30 giugno 2015

                               LIBERAZIONE E AMLIRE

   Nell’estate del 1944 non c’erano che macerie e miserie. Ma si respirava un’aria nuova, e dentro di noi c’erano speranze. Contava il futuro, che era al di là della crudeltà del presente.
  Gli alleati l’otto giugno ci avevano liberato; questo contava. Che ci avessero occupato non lo volevamo vedere, anche se gli inglesi con la loro arroganza ce lo buttavano in faccia, abituati com’erano a comandare sulla gente delle loro colonie.
  Ora però c’erano differenze profonde in rapporto ai tedeschi. Questi facevano retate e con la minacce delle armi spianate ci costringevano a seguirli per scavare buche e trincee; e noi ce ne sottraevamo ad ogni costo, col rischio di farci sparare una sventagliata di mauser.
   Gli alleati invece ci reclutavano e proprio perché liberati da loro, noi andavamo col desiderio di collaborare contro i tedeschi per la fine di una guerra atroce.  Con i loro camion venivano in paese, ci caricavano e ci portavano al lavoro. E ci pagavano; con le Amlire però.
    Allora non lo capivamo. Io non avevo ancora diciotto anni ed avevo la quinta elementare. In seguito l’ho capito. Essi stampavano le lire e ci pagavano con i nostri soldi, non con i loro! Ci pagavano col nostro debito. Per questo, alla fine della guerra, ci ritrovammo con la moneta svalutata e molto più poveri. Ci facevano pagare le rovine che ci eravamo procurato con la guerra voluta dal Duce e acclamata dalla gente. Solo che allora noi paesani non lo capivamo e credevamo che lo facessero davvero per il bene nostro. Forse ci piaceva solo di crederlo.
   A me portavano con il camion a Montemaggiore, dalla mattina alla sera, a pulire le scuderie piene di muli e cavalli; e cataste di sacchi di carrube per mangime. Non ricordo con precisione quante amlire ci davano al giorno; una bella paga comunque per quei tempi. Non erano soldi loro.
  Un giorno, nella palazzina dell’ex comando italiano, colpita da qualche bomba e piena di calcinacci, tra tanti libri rovinati e stracciati, ne trovai uno che era rimasto quasi intatto, e me lo portai a casa come fosse una cosa preziosa per me,  che non ne avevo che pochi altri consunti. Era un libro con le poesie di Felice Cavallotti, con il nome e cognome del possessore riportato   sopra un exlibris, forse di un  ex ufficiale di cavalleria o di un veterinario che l’aveva abbandonato l’otto settembre dell’anno prima.
   Altri miei compaesani venivano portati col camion per i lavori sulla ferrovia Roma-Firenze. Mi dicevano che erano obbligati a riempire le buche grosse come pozzi, provocate dalle bombe, con qualsiasi materiale del posto, soprattutto con le traversine scavicchiate e con le matasse dei cavi di rame delle linee elettriche.
  Questo danno che ci  procuravano col mancato recupero di materiale costoso era di facile intuizione e lo capimmo subito: in seguito avremmo dovuto comprare da loro il rame occorrente a caro prezzo. Anche se poi ci aiutarono col loro Piano Marshall. Ma questo avvenne dopo, quando ebbero bisogno di condizionare il nostro voto per le nostre scelte politiche, nel timore che noi votassimo per i partiti socialcomunisti.

   Però eravamo felici, non solo perché ora si combatteva contro i tedeschi e non c’erano più i bombardamenti degli alleati, ma perché parlavamo anche di libertà, cioè di una cosa che ancora non conoscevamo concretamente, ma che ci appariva come promessa di opportunità per un mondo nuovo.

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