martedì 8 dicembre 2015

                                IL SABATO FASCISTA

  E’facile dimenticare. Più facile del ricordare. Forse anche più importante. Comunque, quando ritornano in mente fatti e misfatti significativi, non bisogna dimenticare, ma occorre sottolinearne e rafforzarne la memoria.
  Per questo io non dimentico i racconti che facevano i reduci della prima e della seconda guerra mondiale. Non dimentico neanche certe scene del tempo fascista, che io ho vissuto. Scene di indottrinamento e di educazione alla guerra. O, meglio, di educazione alla morte, come diceva il filosofo Maritain nel suo “Umanesimo integrale” e anche nel suo “Educazione al bivio” scritti intorno al 1935.
   Soprattutto educazione ad uniformare  la personalità  dei giovani alla volontà del partito fascista e del suo capo. Il simbolo di questa educazione “uniformatrice” era proprio l’uniforme, cioè la divisa: di Figlio della Lupa, di Balilla, di Avanguardista, ecc. Assieme all’uniforme altre cosette, come il distintivo, il gagliardetto, gli inni  e soprattutto il moschetto, cioè il modello ridotto del ’91 (per esattezza del 1891).
  Io ero ancora un quattordicenne, quando vedevo mio fratello diciottenne all’istruzione premilitare insieme ai suoi coetanei nella piazza davanti al municipio. Imparavano a marciare, ad ubbidire ai comandi di qualche tenente che si trovava per caso in licenza.
   L’istruzione premilitare era diventata obbligatoria con una legge del 1934 che istituiva il sabato fascista ad imitazione del sabato inglese. Il sabato inglese però riguardava solo la riduzione  del lavoro a metà giornata, invece il sabato fascista destinava quella metà giornata all’indottrinamento attraverso le attività cosiddette culturali e ricreative e, per i giovani da diciotto a venti anni, anche al servizio premilitare.
  E’ vero che era stato istituito anche il Dopolavoro in ogni abitato e dove possibile, in cui ci si poteva ritrovare e giocare a biliardo, ma sempre come  istituzione strumentale del partito, finalizzata sempre al “credere obbedire combattere”, cioè alla rinuncia della propria personale autonomia di giudizio, perché a pensare e a decidere doveva essere solo il capo, secondo l’ordine  gerarchico fascista. E a pensare con la propria testa poteva essere pericoloso.
  Infatti una sera, dopo che eravamo tornati dalla campagna e mentre eravamo a cena, venne a casa un cugino di mio padre. Non che quello fosse un vero fascista, ma praticava i fascisti locali. Venne  come latore di un avvertimento discreto, suggerito sottovoce a mio padre. Un avvertimento che voleva essere una minaccia e che allarmò vivamente mio padre e mia madre. La minaccia era quella di proporre mio fratello per l’esilio solo se ancora una volta si fosse espresso in quel modo.
    Infatti mio fratello, oltre a sentire i commenti  espressi in famiglia da mio padre in modo assai guardingo e riservato, leggeva il giornale tutti i giorni e spesso, la sera, andava a sentire radio Londra e radio Mosca segretamente presso un capo manipolo fascista che teneva l’ufficio di collocamento, e ci portava anche me.
   Ed era successo che durante il servizio premilitare, mio fratello aveva espresso un giudizio pessimista sulla nostra vittoria nella guerra appena cominciata, si era nel 1940, con gli altri commilitoni. E qualche spione, di quelli che non mancano mai, era andato a riferirlo al segretario del fascio. Di qui la minaccia che fece tremare i miei genitori quella sera, con tutte le raccomandazioni che ne conseguirono per mio fratello, ed anche per noi perché fossimo molto più riservati fuori di casa.  


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