IL SABATO FASCISTA
E’facile dimenticare. Più facile del
ricordare. Forse anche più importante. Comunque, quando ritornano in mente
fatti e misfatti significativi, non bisogna dimenticare, ma occorre
sottolinearne e rafforzarne la memoria.
Per questo io non dimentico i racconti che
facevano i reduci della prima e della seconda guerra mondiale. Non dimentico
neanche certe scene del tempo fascista, che io ho vissuto. Scene di
indottrinamento e di educazione alla guerra. O, meglio, di educazione alla
morte, come diceva il filosofo Maritain nel suo “Umanesimo integrale” e anche
nel suo “Educazione al bivio” scritti intorno al 1935.
Soprattutto educazione ad uniformare la personalità dei giovani alla volontà del partito fascista
e del suo capo. Il simbolo di questa educazione “uniformatrice” era proprio
l’uniforme, cioè la divisa: di Figlio della Lupa, di Balilla, di Avanguardista,
ecc. Assieme all’uniforme altre cosette, come il distintivo, il gagliardetto,
gli inni e soprattutto il moschetto,
cioè il modello ridotto del ’91 (per esattezza del 1891).
Io ero ancora un quattordicenne, quando
vedevo mio fratello diciottenne all’istruzione premilitare insieme ai suoi
coetanei nella piazza davanti al municipio. Imparavano a marciare, ad ubbidire
ai comandi di qualche tenente che si trovava per caso in licenza.
L’istruzione premilitare era diventata
obbligatoria con una legge del 1934 che istituiva il sabato fascista ad
imitazione del sabato inglese. Il sabato inglese però riguardava solo la
riduzione del lavoro a metà giornata,
invece il sabato fascista destinava quella metà giornata all’indottrinamento
attraverso le attività cosiddette culturali e ricreative e, per i giovani da
diciotto a venti anni, anche al servizio premilitare.
E’ vero che era stato istituito anche il
Dopolavoro in ogni abitato e dove possibile, in cui ci si poteva ritrovare e
giocare a biliardo, ma sempre come
istituzione strumentale del partito, finalizzata sempre al “credere
obbedire combattere”, cioè alla rinuncia della propria personale autonomia di
giudizio, perché a pensare e a decidere doveva essere solo il capo, secondo
l’ordine gerarchico fascista. E a
pensare con la propria testa poteva essere pericoloso.
Infatti una sera, dopo che eravamo tornati
dalla campagna e mentre eravamo a cena, venne a casa un cugino di mio padre.
Non che quello fosse un vero fascista, ma praticava i fascisti locali. Venne come latore di un avvertimento discreto,
suggerito sottovoce a mio padre. Un avvertimento che voleva essere una minaccia
e che allarmò vivamente mio padre e mia madre. La minaccia era quella di
proporre mio fratello per l’esilio solo se ancora una volta si fosse espresso
in quel modo.
Infatti mio fratello, oltre a sentire i
commenti espressi in famiglia da mio
padre in modo assai guardingo e riservato, leggeva il giornale tutti i giorni e
spesso, la sera, andava a sentire radio Londra e radio Mosca segretamente
presso un capo manipolo fascista che teneva l’ufficio di collocamento, e ci portava
anche me.
Ed era
successo che durante il servizio premilitare, mio fratello aveva espresso un
giudizio pessimista sulla nostra vittoria nella guerra appena cominciata, si
era nel 1940, con gli altri commilitoni. E qualche spione, di quelli che non
mancano mai, era andato a riferirlo al segretario del fascio. Di qui la
minaccia che fece tremare i miei genitori quella sera, con tutte le raccomandazioni
che ne conseguirono per mio fratello, ed anche per noi perché fossimo molto più
riservati fuori di casa.
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