VECCHIE BARBIERIE
Negli
anni trenta ancora molti del mio paese portavano cappelli, altri più giovani
portavano coppole ed altri cominciavano ad andare in giro senza copricapo, ma con i capelli pettinati, tirati
con la brillantina, a volte con la scriminatura. Alcuni, fra cui mio padre e mio nonno,
portavano ancora i baffi, nessuno si faceva più crescere la barba, fuorché
Scialapè, un boaro che aveva fatto la guerra dell’85-88 in Abissinia, e che
aveva la barba lunga e bianca e un cappellaccio alto, quasi come quelli che si
vedono nelle incisioni ottocentesche di Pinelli. Pochi
allora cominciavano a farsi la barba da soli con le lamette, pochi altri
usavano il rasoio, come mio padre, che io vedevo con curiosità affilarlo alla
coramella tirata alla maniglia di una finestra.
C’erano
due o tre barbierie allora in paese, e ciascuna svolgeva indirettamente anche un
ruolo aggiuntivo, di natura sociale. Quella che apriva più giorni della settimana
era tenuta da appassionati di musica, e fungeva anche da ritrovo per giovani,
che si dilettavano con la chitarra e col
mandolino e imparavano a suonarli.
L’altra apriva solo il sabato sera e la
domenica mattina, per radere barbe di una settimana e tagliare capelli
cresciuti di qualche mese. In questa barbieria settimanale, i contadini qualche
volta discutevano sui lavori di campagna, sull’andamento stagionale, e sì
comunicavano reciproche esperienze, imparando gli uni dagli altri;più spesso, in quanto reduci, raccontavano i loro fatti
della Grande Guerra, e così facevano conoscere e tramandavano le loro memorie
della vita in trincea, delle privazioni e dei combattimenti di una quindicina
di anni prima. Io, da ragazzo, ci andavo per farmi fare u carusu, cioè per farmi tagliare i capelli a zero come tutti i ragazzi di quel tempo, per non dare campo ai
pidocchi ( le bambine, coi capelli lunghi, venivano spidocchiate dalle mamme in
mezzo alla strada). Però vi andavo quasi sempre
per ascoltare i loro discorsi, specialmente quelli di guerra.
Il locale
era a piano terra. Era quadrato e su due pareti consecutive erano collocati tre
specchi con a fronte tre poltrone bianche con testiera; sui lati opposti vi
erano collocate due panche lunghe quanto le pareti, per comodità dei clienti in
attesa del loro turno e di chi voleva partecipare alle conversazioni. Quando parlavano dei campi, essi discutevano
sui lavori più opportuni per le fasi della luna, sui tempi e sui modi di potare
le varie specie di alberi, sui raccolti del momento.
Al tempo della semina e della raccolta del
grano, discutevano di quali fossero le
migliori varietà del frumento, secondo il rendimento, cioè il Reatino, il Frassineto,
il Carosello, il Roma, jl Saracolla, che allora erano i grani più diffusi. Oppure discutevano se quella o quell’altra
zona fosse adatta per la coltivazione di cerasi o no, se fossero opportuni o no
i concimi chimici, specialmente la calciocianammide allora in voga. Infatti alcuni erano contrari alle
concimazioni chimiche, perché, secondo le loro esperienze, sfruttavano il
terreno e lo rendevano più produttivo al massimo per due anni, ma poi lo
rendevano sempre più sterile e sempre più bisognoso di maggiori quantità di
concime chimico.
Anche se ragazzo, io ero curioso di questi
discorsi ed ero meravigliato nel sentire tante preziose conoscenze accumulate
sulla base delle loro esperienze, tanto che poi sono stato sempre più convinto
che il mestiere di contadino richiede capacità di osservazione e di una
stratificazione di conoscenze empiriche davvero ragguardevole, anche se poi i
contadini sono tenuti per ignoranti in quella che comunemente s’intende come
cultura alta e ufficiale.
Quello che più mi affascinava però erano le
conversazioni sui fatti della Grande Guerra. Vi si parlava soprattutto di
Someggiata, di Artiglieria da campagna e da montagna, di Granatieri, di Fanteria,
di Bersaglieri. Ed avevo imparato i nomi dei luoghi più cruenti, come il
Sabotino, il Carso, il Pasubio, la Conca di Plezo, Monte Nero, Caporetto, la
Bainsizza e tanti altri.
Soprattutto raccontavano delle trincee, dei
reticolati, delle cesoie per tagliare i reticolati, delle bombarde, del gas
asfissiante, dei pidocchi, della fame, del riso che diventava colla e non si poteva mangiare, della ritirata
di Caporetto, del ponte del Tagliamento fatto saltare per ritardare l’avanzata
austriaca sulla pianura del Veneto.
Quando raccontavano di quei giorni di guerra,
essi sembravano lieti, come se volessero dire che erano ben felici di essere
scampati da quell’inferno: non lo dicevano, ma gli si leggeva in faccia, mentre
accennavano e chiedevano conferma a uno che chiamavano Serge’, per il fatto che era stato il più alto in grado, cioè
sergente. Vi teneva banco anche uno più giovane e che
non aveva fatto la guerra, ma che, negli anni del dopoguerra, aveva svolto il
servizio di leva per due anni a Postumia.
Anche lui era stato sergente, ma parlava della vita militare come se
fosse un esperto dell’attività bellica e, tanto più perché non era stato in
guerra, gli altri lo chiamavano Badoglio,
per prenderlo in giro.
Io proseguii ad andarci spesso, per alcuni
anni, perché era anche un passatempo per me nelle sere d’inverno. Ma la barbieria
durò fin dopo la seconda guerra mondiale, fino al referendum di Repubblica o
Monarchia del 1946. Allora cominciarono a scontrarsi tra di loro: due erano
fratelli, ma uno era monarchico e l’altro era comunista e repubblicano come anche
il terzo barbiere. Cominciarono a dibattere, a scontrarsi, a non andare più d’accordo,
sicché dopo la vittoria della Repubblica, la barbieria si sciolse ed ognuno dei
barbieri si mise per conto proprio. Ma le
belle serate vivaci come quelle di un circolo finirono, col rammarico mio
e di molti altri.
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