lunedì 20 giugno 2016

                                      VECCHIE  BARBIERIE  
   Negli anni trenta ancora molti del mio paese portavano cappelli, altri più giovani portavano coppole ed altri cominciavano ad andare in giro senza  copricapo, ma con i capelli pettinati, tirati con la brillantina, a volte con la scriminatura.      Alcuni, fra cui mio padre e mio nonno, portavano ancora i baffi, nessuno si faceva più crescere la barba, fuorché Scialapè, un boaro che aveva fatto la guerra dell’85-88 in Abissinia, e che aveva la barba lunga e bianca e un cappellaccio alto, quasi come quelli che si vedono nelle incisioni ottocentesche di Pinelli.    Pochi allora cominciavano a farsi la barba da soli con le lamette, pochi altri usavano il rasoio, come mio padre, che io vedevo con curiosità affilarlo alla coramella tirata alla maniglia di una finestra.
   C’erano due o tre barbierie allora in paese, e ciascuna svolgeva indirettamente anche un ruolo aggiuntivo, di natura sociale.  Quella che apriva più giorni della settimana era tenuta da appassionati di musica, e fungeva anche da ritrovo per giovani, che si dilettavano  con la chitarra e col mandolino e imparavano a suonarli. 
    L’altra apriva solo il sabato sera e la domenica mattina, per radere barbe di una settimana e tagliare capelli cresciuti di qualche mese. In questa barbieria settimanale, i contadini qualche volta discutevano sui lavori di campagna, sull’andamento stagionale, e sì comunicavano reciproche esperienze, imparando gli uni dagli altri;più spesso,  in quanto reduci, raccontavano i loro fatti della Grande Guerra, e così facevano conoscere e tramandavano le loro memorie della vita in trincea, delle privazioni e dei combattimenti di una quindicina di anni prima.   Io, da ragazzo, ci andavo per farmi fare u carusu, cioè per farmi tagliare i capelli a zero come tutti i ragazzi di quel tempo, per non dare campo ai pidocchi ( le bambine, coi capelli lunghi, venivano spidocchiate dalle mamme in mezzo alla strada). Però vi andavo quasi sempre  per ascoltare i loro discorsi, specialmente quelli di guerra.
   Il locale era a piano terra. Era quadrato e su due pareti consecutive erano collocati tre specchi con a fronte tre poltrone bianche con testiera; sui lati opposti vi erano collocate due panche lunghe quanto le pareti, per comodità dei clienti in attesa del loro turno e di chi voleva partecipare alle conversazioni.   Quando parlavano dei campi, essi discutevano sui lavori più opportuni per le fasi della luna, sui tempi e sui modi di potare le varie specie di alberi, sui raccolti del momento.
   Al tempo della semina e della raccolta del grano, discutevano  di quali fossero le migliori varietà del frumento, secondo il rendimento, cioè il Reatino, il Frassineto, il Carosello, il Roma, jl Saracolla, che allora erano i grani più diffusi.   Oppure discutevano se quella o quell’altra zona fosse adatta per la coltivazione di cerasi o no, se fossero opportuni o no i concimi chimici, specialmente la calciocianammide allora in voga.   Infatti alcuni erano contrari alle concimazioni chimiche, perché, secondo le loro esperienze, sfruttavano il terreno e lo rendevano più produttivo al massimo per due anni, ma poi lo rendevano sempre più sterile e sempre più bisognoso di maggiori quantità di concime chimico.
   Anche se ragazzo, io ero curioso di questi discorsi ed ero meravigliato nel sentire tante preziose conoscenze accumulate sulla base delle loro esperienze, tanto che poi sono stato sempre più convinto che il mestiere di contadino richiede capacità di osservazione e di una stratificazione di conoscenze empiriche davvero ragguardevole, anche se poi i contadini sono tenuti per ignoranti in quella che comunemente s’intende come cultura alta e ufficiale.
  Quello che più mi affascinava però erano le conversazioni sui fatti della Grande Guerra. Vi si parlava soprattutto di Someggiata, di Artiglieria da campagna e da montagna, di Granatieri, di Fanteria, di Bersaglieri. Ed avevo imparato i nomi dei luoghi più cruenti, come il Sabotino, il Carso, il Pasubio, la Conca di Plezo, Monte Nero, Caporetto, la Bainsizza e tanti altri.  
  Soprattutto raccontavano delle trincee, dei reticolati, delle cesoie per tagliare i reticolati, delle bombarde, del gas asfissiante, dei pidocchi, della fame, del riso che diventava  colla e non si poteva mangiare, della ritirata di Caporetto, del ponte del Tagliamento fatto saltare per ritardare l’avanzata austriaca sulla pianura del Veneto.
  Quando raccontavano di quei giorni di guerra, essi sembravano lieti, come se volessero dire che erano ben felici di essere scampati da quell’inferno: non lo dicevano, ma gli si leggeva in faccia, mentre accennavano e chiedevano conferma a uno che chiamavano Serge’, per il fatto che era stato il più alto in grado, cioè sergente.  Vi teneva banco anche uno più giovane e che non aveva fatto la guerra, ma che, negli anni del dopoguerra, aveva svolto il servizio di leva per due anni a Postumia.  Anche lui era stato sergente, ma parlava della vita militare come se fosse un esperto dell’attività bellica e, tanto più perché non era stato in guerra, gli altri lo chiamavano Badoglio, per prenderlo in giro. 
  Io proseguii ad andarci spesso, per alcuni anni, perché era anche un passatempo per me nelle sere d’inverno. Ma la barbieria durò fin dopo la seconda guerra mondiale, fino al referendum di Repubblica o Monarchia del 1946. Allora cominciarono a scontrarsi tra di loro: due erano fratelli, ma uno era monarchico e l’altro era comunista e repubblicano come anche il terzo barbiere. Cominciarono a dibattere, a scontrarsi, a non andare più d’accordo, sicché dopo la vittoria della Repubblica, la barbieria si sciolse ed ognuno dei barbieri si mise per conto proprio. Ma le  belle serate vivaci come quelle di un circolo finirono, col rammarico mio e di molti altri.

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