sabato 25 giugno 2016

                            CANNETI  E  VIGNE
  Il territorio del mio paese  è tutto di colline basse, che si succedono ognuna accanto alle altre, come groppe di un branco di pecore che si riparano dal sole canicolare. Tra le une e le altre, le piccole valli hanno una qualche frescura del terreno, più raramente vi scorre qua e là un qualche ruscelletto che in estate inverdisce appena una sinuosa e stretta striscia di terra.
  Proprio in quelle piccole valli, dove il terreno si fa in qualche misura più umido, c’erano i salici e crescevano i canneti, mentre qua e là per le colline venivano coltivate le vigne trionfanti di tralci, che si allungavano come festoni ornati di quel celeste denso che dava ad essi il solfato di rame appena irrorato.
   Nei campi a coltura mista, come erano e sono ancora  quelli del mio paese, ogni contadino aveva la sua vigna, per ricavarne almeno il vino per il suo consumo familiare. E tutti i contadini che possedevano terreni vallivi e più o meno umidi, avevano alberi di salice e canneti, gli uni e gli altri preziosi per il sostegno delle viti.
   La coltivazione delle vigne era allora molto varia, condizionata dalle varietà dei terreni, dalla esposizione solare e dalla posizione più o meno a monte delle colline.  C’erano numerosi campi con viti sostenute da piccoli alberi, specialmente aceri ed ornelli, a volte con “carnevali” che collegavano un albero all’altro con l’aiuto di un filo di ferro che fungeva da tirante .
  E c’erano le viti tirate a “conocchia” (ogni vite era sostenuta da quattro canne disposte a piramide) oppure a filare (ogni vite era sostenuta da due canne incrociate ad ics, che si univano più in alto con quelle delle viti adiacenti in modo da formare quasi una rete). Tutte le viti e  le canne, sia a conocchia sia a filare, erano legate e tenute insieme con legacci di vinchi e di ginestre.
   La lavorazione della vigna era assai laboriosa, a cominciare dalla vangatura, che era il primo lavoro dopo quello della potatura. Si doveva vangare filare per filare, e tagliare la prima corona di radici superficiali di ogni vite con un ronchetto ( u rungittu) che fungeva anche da sterratore per la vanga, quando s’intoppava per il terreno argilloso. Un lavoro pesante e lungo, che però veniva compensato dalla semina e raccolta di fagioli e da piante di carciofi nello spazio tra un filare e l’altro.
  Per la tenuta della vigna era necessario l’impiego delle canne. Dopo la vangatura invernale, bisognava fare la cernita delle canne usate nell’anno precedente, e sostituire quelle ormai fragili con le canne nuove, tagliate dal canneto a gennaio con luna in fase calante. Quindi occorreva piantare ogni canna al posto giusto e provvedere alla legatura con le parti della vite, mediante legacci di vinchio o di ginestra.
   Senza le canne non si potevano tenere le vigne. Ecco perché i contadini avevano nelle valli piante di salici e canneti. Chi non aveva canneti, doveva per forza comprare le canne da chi ne aveva da vendere.
   La coltivazione della canna comune può dare materia preziosa per la trasformazione industriale e la produzione della cellulosa. Ma i contadini fino ad allora non lo sapevano. Per loro era preziosa per le vigne ed anche per il sostegno dei pomodori e dei fagiolini nei campi e negli orti.
  Lo seppero allora, quando c’era l’attacco della fillossera, c’era la crisi del commercio delle uve e dei vini, e c’era la crisi economica, per cui non si trovava più una lira per pagare  le tasse sempre più gravose, giacché di soldi se ne spendevano parecchi in Libia e in Abissinia.
  Lo seppero quando alcuni commercianti forestieri vennero ad offrire prezzi assai convenienti per i rizomi delle canne. Si diffuse subito nel paese un’aria nuova, quasi un po’ di allegria nei visi rugosi e sdentati di tanti contadini resi vecchi anzi tempo per le fatiche e gli stenti della vita: vedevano la possibilità di maneggiare finalmente qualche soldo, che ravvivava le loro speranze.
   E si dettero a cavare i rizomi delle canne, a “cioccare” i canneti, a finirli. Io vidi allora persino camion carichi di rizomi risalire la strada  sterrata di “Sandunicola”, con i contadini che avevano negli occhi un’altra luce, anche se ora avevano saputo che da quei rizomi le industrie avrebbero fabbricato la nitrocellulosa, la polvere da sparo per la produzione di bombe e proiettili in preparazione di una nuova guerra.
   Lo sapevano che dopo la guerra d’Abissinia e la guerra civile spagnola ci sarebbe stata per i loro figli una nuova guerra, cui miravano la “battaglia demografica” e la tassa sul celibato. E sapevano che i rizomi delle canne servivano per i proiettili che avrebbero sparato i loro figli. Ma quei soldi ricavati quasi a buon mercato, quando c’era la crisi del commercio delle uve e del vino, li rendevano più leggeri ed allegri, quasi un po’ felici. Anche se poi, dopo qualche anno, l’avremmo tutti pagata cara.










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