IL NOSTRO NATALE NEGLI ANNI TRENTA
Ricordo vagamente il Natale dei miei anni da ragazzo. Ricordo quelli
nelle scuole elementari, perché a noi alunni ci si chiedeva di portare muschio
e qualche rametto di pungitopo con le bacche rosse attaccate ai loro cladodi.
Per me era una disperazione, perché la mia campagna era tutta assolata e il
muschio non riuscivo a trovarlo.
Ricordo
chiaramente che molti, specialmente le donne, andavano alla novena, soprattutto
perché c’era qualche frate predicatore. La predica era qualche cosa
d’importante, perché era fatta di racconti, di riferimenti, di parole che
andavano a toccare gli animi e che incantavano gli ascoltatori. Quasi come in
teatro. Che allora non c’era, perché non si respiravano iniziative culturali in
quel tempo. E le novene e le prediche in chiesa forse erano il teatro dei poveri
e della gente che neanche sapeva leggere un giornale. Insomma nelle sere d’inverno
le prediche creavano un immaginario per la fantasia con la magia delle parole e
scuotevano emotivamente la gente da quel torpore passivo di cui era fatta la
rassegnazione alle disgrazie e alle cattive stagioni che tormentavano i contadini.
Ricordo però anche i ciocchi nel focolare, la
sera messi in un gran fuoco per Gesù
Bambino che scendeva dal camino a riscaldarsi. Si creava così un alone di magia
così fascinoso che noi bambini ci credevamo davvero e restavamo in attesa della
visione e del miracolo. Chissà se ci credevano anche le nostre mamme, le nostre
zie e le nostre nonne riunite insieme e indaffarate per preparare mandorle e
ciambelline?
E ricordo la cena, i giochi e i racconti che
avevano il tono delle favole, ma a volte anche di fatti che a noi piccoli
incutevano terrore. Era una cena da vigilia, che però si allungava con frutta
secca, specie con mandorle, perché mio padre aveva in coltura molti mandorli di
diverse varietà. Lo scopo era quello di attendere la mezzanotte per la nascita
del Bambinello.
Per tirarla alla lunga c’erano il gioco
della “pilocca” per i più piccoli, con gli spiccioli dentro e noi bendati col
pestello in mano. Un gioco che durava solo poche decine di minuti. Poi però c’erano
i racconti, che duravano tanto, quando c’era chi sapeva raccontare.
Ricordo che mio padre rimaneva estraneo a
tutto, seduto al tavolo in mezzo a noi, perché era immerso nella lettura della
Divina Commedia, tanto che bisognava chiamarlo per scuoterlo e fargli ascoltare
ciò che si diceva in quel momento. Non ho mai capito come facesse ad
estraniarsi da tutto quel chiacchiericcio, che lui non apprezzava affatto.
Poi, dopo la scuola elementare, andavo con
le pecore. E non c’erano più Natale né Pasqua, né Capodanno. Passavo le feste
in campagna, poi la sera, anche a Natale e a Pasqua cominciai anch’io a leggere
come mio padre, ma non sapevo concentrarmi se non c’era silenzio. Poi cominciai
a studiare da solo e, allora, ero contento quando tutti andavano alle novene e
io restavo da solo.
Studiavo e
leggevo per ore ed ore. E non mi veniva sonno, anzi, per distrarmi qualche
momento, mi divertivo a leggere certe pagine di un’antologia, specialmente qualche
brano del Folengo, o mi mettevo a risolvere qualche problema di matematica come
fosse un rebus o rompicapo.
Ma mi
rammaricavo e mi angosciavo, quando sentivo gruppi di coetanei che si
divertivano e cantavano in coro i canti popolari, passando anche sotto le
finestre di casa mia. Avrei voluto essere con loro. Ma la mia determinazione
per studiare era più forte.
Mi sono rimasti dentro quei canti, assieme
ai rammarichi e alle angosce nell’ essere inchiodato sui libri anche mentre
mangiavo, tutte le sere, anche in quelle di festa. Volevo leggere e studiare ad
ogni costo, sfruttando qualsiasi momento libero che mi potevo concedere.
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