I PROMESSI SPOSI
E’ sempre una sensazione, anche per una
parola sentita o letta, che stimola un ricordo a riaffiorare dapprima come
dentro una nebbiosità indistinta, poi sempre più nitido nei suoi particolari,
fino a colorarsi di nuovi sentimenti, che a volte ci scuotono il cuore.
Così, improvviso, m’è ritornato in mente quel novenario con cui comincia
il racconto del Manzoni “Quel ramo del lago di Como…” e quindi la musicalità di
molti brani di quel romanzo, in cui risuonano frequenti i ritmi di versi di
varia misura .
Davvero una grande opera letteraria. Da cui io ho imparato a scrivere
molto di quel che so. Immiserita però nell’insegnamento di tanti, di troppi
insegnanti nelle scuole del nostro paese. Che arrivarono persino, nei decenni
scorsi, a chiederne l’espunzione dai programmi scolastici, dietro la speciosa
proposta di sostituirlo con opere di autori più “nuovi”, novecenteschi.
Non bastava ad essi di espungerlo dall’animo dei loro studenti con
l’aridità e la noia delle loro lezioni, ne chiedevano addirittura l’espunzione
dai programmi così da privarne altri studenti, che avevano la fortuna di avere quei
pochi insegnanti che sapevano guidarli al godimento, al piacere, di leggerne
pagine e pagine ed anche tutta l’opera.
Con
la noia di tante lezioni su annotazioni grammaticali e retoriche, per forza gli
studenti leggevano un libro morto, ammazzato, e se ne allontanavano senza più
mai sfogliare quelle pagine ormai impacchettate dentro un pregiudizio.
In verità, capitò anche a me di buttare via quel libro per la noia che
mi prese nel leggerne le prime pagine, specialmente quelle che si dilungavano
nel riportare le gride. Ma io lo leggevo da ragazzo in campagna, in mezzo alle
pecore al pascolo.
Infatti
con i miei miseri risparmi (non mi compravo neanche un gelato alla festa
patronale) ero riuscito a comprarmi a mezzo posta cinque libri dell’editrice
Lucchi di Milano, fra cui, appunto, I Promessi Sposi e Mimì Bluette di Guido da
Verona, allora autore celebrato e in edizione curata da Gian Dàuli: li ricordo
come se ce li avessi ancora tra le mani!
Li avevo ricevuti dal postino e, il giorno dopo, trepidante, me li ero portati
con le pecore. Mi rivedo al pascolo nel campo di “Pijtrucciu ‘e Davide”, appena
oltre il Fosso degli Impiccati, che leggevo le prime pagine dei “Promessi
sposi” accucciato all’ombra di un pero (in quel campo c’erano solo due o tre
peri, che facevano un po’ d’ombra nelle giornate estive).
E mi prendeva delusione e noia, alla lettura di quelle che mi parevano inutili
descrizioni e digressioni che si dilungavano nella narrazione. E dopo varie
pagine, lo richiusi e lo misi da parte, per sfogliare altri libri. Ma allora
avevo si e no sedici anni e non ero andato oltre la quinta elementare.
In quel tempo leggevo anche il giornale e i libri di mio padre, La
Gerusalemme liberata e Orlando furioso, mandandone a memoria vari stralci,
imitando mio padre che li aveva mandati a memoria in gran parte, assieme a
diversi canti della Divina Commedia.
Poi con altri piccoli risparmi, a mezzo posta
comprai alcuni classici della Sonzogno di Milano e mi feci anche comprare a
Roma il dizionario del Palazzi. Volevo studiare da solo e non sapevo come fare,
poiché non potevo frequentare alcuna scuola. Intanto avevo acquisito nuove
conoscenze occasionali con le varie letture, anche se confuse e senza
ordine.
Qualche anno dopo ripresi la lettura dei Promessi
sposi; mi piacque di leggerlo sin dal principio. Allora decisi di proseguire a
leggere qualunque cosa mi fosse possibile e di studiare da solo il latino e il
francese, la storia, di leggere i classici, dal Petrarca al Pulci, al Boiardo e
ogni altro libro, tutti per intero.
Soprattutto
mi assunsi l’impegno di leggere almeno una pagina al giorno dei Promessi sposi
e del dizionario. A quest’impegno tenni
fede per almeno dieci anni di seguito, anche quando mi capitava di avere la
febbre, anche a mezzanotte, dopo aver lavorato per tutto il giorno in campagna.
Non trascurai mai un giorno, come i preti col breviario.
I
promessi sposi e il dizionario sono stati davvero i miei maestri di base. Con I
promessi sposi ho conversato, ho riso, ho riflettuto. Dei Promessi sposi in particolare quasi sempre non leggevo una sola
pagina aperta a caso com’era nel mio impegno, ma, preso dal piacere della
lettura, ogni volta continuavo a leggerne pagine e pagine, quasi entrando io
stesso nella narrazione. In dieci anni lo avrò letto per intero almeno una
decina di volte, a dire poco. Anche se intanto leggevo altri libri, che andavo
comprando col solito metodo del risparmio di miseri spiccioli.
E’ vero, imparavo ma soprattutto mi divertivo con i vari personaggi e le
varie situazioni, come con il don Abbondio “vaso di coccio in mezzo ai vasi di
ferro”, che esclama: “Quando mi fosse
toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! L’arcivescovo me la
leverebbe? - Eh! le schioppettate non si danno via come confetti…- ribatteva
Perpetua.
Come con Renzo e i capponi di fronte
all’Azzeccagarbugli e le ambiguità che
sorgono nel loro dialogo; o ancora con le figure di donna Prassede e don Ferrante,
ecc. Ci sono sprazzi d’ironia, d’umorismo che nessun romanzo italiano, a parte
“Piccolo mondo antico” del Fogazzaro, sparge qua e là, anche dove meno te
l’aspetti, a rasserenare ed a coinvolgere il lettore, quasi come dice il Tasso
nella dedica della Gerusalemme, anche se , secondo il Manzoni, “di amore ce n’è fin troppo e il mondo ha
bisogno di altri sentimenti”:
“Sai che
là corre il mondo, ove più versi
Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso;
e che ‘l vero condito in molli versi
i più schivi allettando ha persuaso…”.
Ma
nell’insegnamento, spesso I promessi sposi e lo stesso Manzoni sono messi nella
gabbia della “provvidenza”, quasi suo sinonimo o metafora. E non si pongono in
evidenza l’ironia, l’umorismo, non solo dell’uomo saggio e del letterato, ma
anche dell’uomo che è partecipe dello spirito del suo tempo, che non è solo
risorgimentale o solo cattolico liberale, ma anche in qualche modo rivoluzionario.
Nella
gabbia della “provvidenza” si fa apparire il Manzoni come uomo di chiesa, quasi
un bigotto ripiegato a contemplare la sua fede. E invece non si mette in
evidenza la rappresentazione della violenza, dell’ingiustizia e dell’organizzazione del potere in don Rodrigo e i suoi bravi
assieme all’insufficiente vaniloquio delle gride, tanto da parere d’essere in
presenza di certi nostri tempi, con le continue leggi per combattere invano le
attività delle cosiddette organizzazioni
criminali.
E’ vero
che alla fine del romanzo, nel sentirsi sollevato dalle passate minacce, don
Abbondio poi quasi si pente, ma intanto si sfoga dicendo:
“E’ stata un gran flagello questa peste; ma
è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei,
non ce ne liberavamo piú…. Non lo vedremo piú andare in giro con quegli sgherri
dietro, con quell'albagìa, con quell'aria, con quel palo in corpo, con quel
guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione”.
E leggendo, a noi ormai vecchi pare ancora di vedere certa
gente al tempo del fascismo, tanto da poter assimilare quella peste alla guerra
e alla conseguente liberazione da tanti
con quell’albagia, con quell’aria, con quel
palo in corpo….
Ed è
vero che il popolano Renzo si tira fuori dalla sommossa, dal disordine sociale,
ripudiando ogni violenza, ma il Manzoni pare evocare la rivoluzione francese,
le rivendicazioni babuviane e adelfiane, tenendole in simpatia, quando fa
pronunciare al mercante nell’osteria di
Gorgonzola con tagliente ironia “… s'era messo a predicare, e a proporre, così una galanteria, che
s'ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi
farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati?