Il modano è un cannello con cui i pescatori rammagliano le reti. Per me qui è una metafora del blog in cui m'ingegno di rammagliare le mie memorie per rievocare eventi del passato.
Oltre questo blog, chi lo volesse potrebbe leggere anche gli altri due miei blog:”Poesia e forma.blogspot.com”-- “Echi e richiami.blogspot.com”
CENTENARIO
Ci si prepara alla celebrazione del
centenario dell’intervento italiano nella Grande Guerra. Dicono che sia stata
un evento della storia come la grandine è un evento della natura: inevitabile.
Ma è stata una guerra voluta dalla borghesia per i suoi scopi.
La storia più o meno mendace di quella guerra
è scritta nei libri anche per nascondere
gli interessi materiali, politici, di potere della classe economicamente e
politicamente dominante. La storia vera sta solo scritta nei cimiteri di
guerra, dove sono sepolti seicentomila giovani ammazzati nel fiore dei loro
anni.
Una carneficina, un mare di strazi, di
rovine, di lutti voluti per integrare
una patria e per far nascere un sentimento nazionale che ancora non c’era,
ma anche per i guadagni dei pochi con
l’industria della guerra. Soprattutto voluta per arginare le masse popolari che
minacciavano di diventare maggioranza politica e di prendere il potere con la
guida dei socialisti.
I pochi, i ricchi, i benestanti, in
opposizione all’internazionalismo dei socialisti, innalzarono la bandiera della
retorica nazionalista. E fu un’orgia di parole evocanti miti, ideali e
volontarismi; un’ orgia che investì e coinvolse almeno una grossa parte della borghesia
a danno delle masse popolari
prevalentemente incolte e semianalfabete. E fu la guerra.
Dietro la retorica per il compimento del
Risorgimento e dietro i bollori borghesi per una “guerra sola igiene del mondo”
come dicevano i futuristi, si nascondevano l’esigenza di difesa del predominio della loro classe sulle masse
popolari e il loro disprezzo per il ceto operaio e contadino, che solo da
qualche anno avevano conquistato il diritto di voto con esclusione delle donne.
Non c’erano mai stati i soldi per dare
l’istruzione, il medico e le medicine al popolo. Ma si trovarono subito
un’infinità di soldi per comprare fucili, bombe e cannoni per mandare a morire milioni di giovani.
Non bastò l’avere strappato milioni di giovani al lavoro, alla terra, alle loro
famiglie, per mandarli al macello nelle trincee. Vollero il disprezzo per la
loro vita , vollero le decimazioni in tanti dei loro reparti, soprattutto
vollero togliere loro la dignità di
uomini, di combattenti, con l’accusa infamante e calunniosa di tradimento, di
sovversivismo, di vigliaccheria e di diserzione di fronte al nemico. Ma
tacquero sugli enormi errori tattici e strategici dei generali.
Con mia grande rabbia, ascoltai in
televisione persino Nenni esprimere
quegli stessi giudizi infamanti; segno che anche lui non aveva smesso
mai i suoi panni borghesi. Ma io avevo sentito i racconti di non pochi reduci.
Nell’attacco austrotedesco di Caporetto, mio padre era sul monte Smerl, un
costone del massiccio del Monte Nero. Il suo reggimento fu assalito col gas e
si difese fino all’esaurimento delle munizioni; dopo la ritirata, a Desenzano
del Garda, di tutto il reggimento si ritrovarono in diciassette.
Quando ero ragazzo, nel mio paese non
c’erano ritrovi, oltre le osterie. Nelle sere di venerdì e sabato, quando
aprivano e si affollavano le barberie in cui si ritrovavano tanti reduci di quasi vent’anni prima, io vi andavo
attratto dai loro racconti di guerra, sui cui tornavano ossessivamente,
frammisti a discorsi sui lavori campestri.
Racconti di guerra che io ascoltavo come se
fossero mitiche avventure intrise di sofferenze, i cui aspetti più ricorrenti
erano i morti, le granate, i mortai e gli obici, il fango delle trincee, i pidocchi e il rancio schifoso e che non
arrivava mai. E poi la ritirata, la ritirata dal Carso, dalla Conca di
Plezzo, da Caporetto, Udine, il ponte sul Tagliamento.
E poi i campi di concentramento italiani per
la raccolta degli sbandati, peggiori
dei lager, per le cui conseguenze
morirono anche due fratelli di mio padre, e da cui mio padre si salvò con la
fuga. Campi che avrebbero dovuto essere centri di raccolta per coloro che si ritrovavano non
più inquadrati nei loro reparti e che non avevano più la guida di un ufficiale.
Campi
che erano veri e propri lager, come se gli sbandati fossero disertori,
traditori, nemici, e non giovani sfiniti dalle trincee, disfatti, e bisognosi
di ritrovare le loro forze fisiche e morali, di assistenza e d’incoraggiamento.
Ma che invece erano visti solo come massa di contadini strappati alla terra,
gente analfabeta e semianalfabeta, quasi di razza inferiore.
E non bastarono una guerra e centinaia di
migliaia di morti per fermare le rivendicazioni sociali delle masse popolari e
contadine. La borghesia, finita la guerra, dovette inventarsi il fascismo, con
il manganello, l’olio di ricino, le carceri, il confino e le divise funeree
degli squadristi e delle camicie nere.