giovedì 29 gennaio 2015


Il modano è un cannello con cui i pescatori rammagliano le reti. Per me qui è una metafora del blog in cui m'ingegno di rammagliare le mie memorie per rievocare eventi del passato.
 Oltre questo blog, chi lo volesse potrebbe leggere anche gli altri due miei blog:”Poesia e forma.blogspot.com”-- “Echi e richiami.blogspot.com”

                                            CENTENARIO
  Ci si prepara alla celebrazione del centenario dell’intervento italiano nella Grande Guerra. Dicono che sia stata un evento della storia come la grandine è un evento della natura: inevitabile. Ma è stata una guerra voluta dalla borghesia per i suoi scopi.
  La storia più o meno mendace di quella guerra è scritta  nei libri anche per nascondere gli interessi materiali, politici, di potere della classe economicamente e politicamente dominante. La storia vera sta solo scritta nei cimiteri di guerra, dove sono sepolti seicentomila giovani ammazzati nel fiore dei loro anni.
   Una carneficina, un mare di strazi, di rovine, di lutti voluti per integrare  una patria e per far  nascere  un sentimento nazionale che ancora non c’era, ma anche per i guadagni dei pochi  con l’industria della guerra. Soprattutto voluta per arginare le masse popolari che minacciavano di diventare maggioranza politica e di prendere il potere con la guida dei socialisti.
 I pochi, i ricchi, i benestanti, in opposizione all’internazionalismo dei socialisti, innalzarono la bandiera della retorica nazionalista. E fu un’orgia di parole evocanti miti, ideali e volontarismi; un’ orgia che investì e coinvolse almeno una grossa parte della borghesia a danno delle masse popolari  prevalentemente incolte e semianalfabete. E fu la guerra.
  Dietro la retorica per il compimento del Risorgimento e dietro i bollori borghesi per una “guerra sola igiene del mondo” come dicevano i futuristi, si nascondevano l’esigenza di difesa del  predominio della loro classe sulle masse popolari e il loro disprezzo per il ceto operaio e contadino, che solo da qualche anno avevano conquistato il diritto di voto con esclusione delle donne.
   Non c’erano mai stati i soldi per dare l’istruzione, il medico e le medicine al popolo. Ma si trovarono subito un’infinità di soldi per comprare fucili, bombe e cannoni per mandare  a morire milioni di giovani.
 Non bastò l’avere strappato milioni  di giovani al lavoro, alla terra, alle loro famiglie, per mandarli al macello nelle trincee. Vollero il disprezzo per la loro vita , vollero le decimazioni in tanti dei loro reparti, soprattutto vollero togliere  loro la dignità di uomini, di combattenti, con l’accusa infamante e calunniosa di tradimento, di sovversivismo, di vigliaccheria e di diserzione di fronte al nemico. Ma tacquero sugli enormi errori tattici e strategici dei generali.
  Con mia grande rabbia, ascoltai in televisione persino Nenni esprimere  quegli stessi giudizi infamanti; segno che anche lui non aveva smesso mai i suoi panni borghesi. Ma io avevo sentito i racconti di non pochi reduci. Nell’attacco austrotedesco di Caporetto, mio padre era sul monte Smerl, un costone del massiccio del Monte Nero. Il suo reggimento fu assalito col gas e si difese fino all’esaurimento delle munizioni; dopo la ritirata, a Desenzano del Garda, di tutto il reggimento si ritrovarono in diciassette.
   Quando ero ragazzo, nel mio paese non c’erano ritrovi, oltre le osterie. Nelle sere di venerdì e sabato, quando aprivano e si affollavano le barberie in cui si ritrovavano tanti reduci  di quasi vent’anni prima, io vi andavo attratto dai loro racconti di guerra, sui cui tornavano ossessivamente, frammisti a discorsi sui lavori campestri.
   Racconti di guerra che io ascoltavo come se fossero mitiche avventure intrise di sofferenze, i cui aspetti più ricorrenti erano i morti, le granate, i mortai e gli obici, il fango delle trincee,  i pidocchi e il rancio schifoso e che non arrivava mai. E poi la ritirata, la ritirata dal Carso, dalla Conca di Plezzo,  da Caporetto,  Udine, il ponte sul Tagliamento.
   E poi i campi di concentramento italiani per la raccolta degli sbandati, peggiori  dei  lager, per le cui conseguenze morirono anche due fratelli di mio padre, e da cui mio padre si salvò con la fuga. Campi che avrebbero dovuto essere centri di raccolta  per coloro che si ritrovavano  non più inquadrati nei loro reparti e che non avevano più la guida di un ufficiale.
  Campi  che erano veri e propri lager, come se gli sbandati fossero disertori, traditori, nemici, e non giovani sfiniti dalle trincee, disfatti, e bisognosi di ritrovare le loro forze fisiche e morali, di assistenza e d’incoraggiamento. Ma che invece erano visti solo come massa di contadini strappati alla terra, gente analfabeta e semianalfabeta, quasi di razza inferiore.
  E non bastarono una guerra e centinaia di migliaia di morti per fermare le rivendicazioni sociali delle masse popolari e contadine. La borghesia, finita la guerra, dovette inventarsi il fascismo, con il manganello, l’olio di ricino, le carceri, il confino e le divise funeree degli squadristi e delle camicie nere.
 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento