CANNETI
E VIGNE
Il territorio del mio paese è tutto di colline basse, che si succedono
ognuna accanto alle altre, come groppe di un branco di pecore che si riparano
dal sole canicolare. Tra le une e le altre, le piccole valli hanno una qualche
frescura del terreno, più raramente vi scorre qua e là un qualche ruscelletto
che in estate inverdisce appena una sinuosa e stretta striscia di terra.
Proprio in quelle piccole valli, dove il
terreno si fa in qualche misura più umido, c’erano i salici e crescevano i
canneti, mentre qua e là per le colline venivano coltivate le vigne trionfanti
di tralci, che si allungavano come festoni ornati di quel celeste denso che
dava ad essi il solfato di rame appena irrorato.
Nei campi a coltura mista, come erano e sono
ancora quelli del mio paese, ogni
contadino aveva la sua vigna, per ricavarne almeno il vino per il suo consumo
familiare. E tutti i contadini che possedevano terreni vallivi e più o meno
umidi, avevano alberi di salice e canneti, gli uni e gli altri preziosi per il
sostegno delle viti.
La coltivazione delle vigne era allora molto
varia, condizionata dalle varietà dei terreni, dalla esposizione solare e dalla
posizione più o meno a monte delle colline.
C’erano numerosi campi con viti sostenute da piccoli alberi,
specialmente aceri ed ornelli, a volte con “carnevali” che collegavano un
albero all’altro con l’aiuto di un filo di ferro che fungeva da tirante .
E c’erano le viti tirate a “conocchia” (ogni
vite era sostenuta da quattro canne disposte a piramide) oppure a filare (ogni
vite era sostenuta da due canne incrociate ad ics, che si univano più in alto con
quelle delle viti adiacenti in modo da formare quasi una rete). Tutte le viti
e le canne, sia a conocchia sia a filare,
erano legate e tenute insieme con legacci di vinchi e di ginestre.
La lavorazione della vigna era assai
laboriosa, a cominciare dalla vangatura, che era il primo lavoro dopo quello
della potatura. Si doveva vangare filare per filare, e tagliare la prima corona
di radici superficiali di ogni vite con un ronchetto ( u rungittu) che fungeva anche da sterratore per la vanga, quando
s’intoppava per il terreno argilloso. Un lavoro pesante e lungo, che però
veniva compensato dalla semina e raccolta di fagioli e da piante di carciofi
nello spazio tra un filare e l’altro.
Per la tenuta della vigna era necessario
l’impiego delle canne. Dopo la vangatura invernale, bisognava fare la cernita
delle canne usate nell’anno precedente, e sostituire quelle ormai fragili con
le canne nuove, tagliate dal canneto a gennaio con luna in fase calante. Quindi
occorreva piantare ogni canna al posto giusto e provvedere alla legatura con le
parti della vite, mediante legacci di vinchio o di ginestra.
Senza le canne non si potevano tenere le
vigne. Ecco perché i contadini avevano nelle valli piante di salici e canneti.
Chi non aveva canneti, doveva per forza comprare le canne da chi ne aveva da
vendere.
La coltivazione della canna comune può dare
materia preziosa per la trasformazione industriale e la produzione della
cellulosa. Ma i contadini fino ad allora non lo sapevano. Per loro era preziosa
per le vigne ed anche per il sostegno dei pomodori e dei fagiolini nei campi e
negli orti.
Lo seppero allora, quando c’era l’attacco
della fillossera, c’era la crisi del commercio delle uve e dei vini, e c’era la
crisi economica, per cui non si trovava più una lira per pagare le tasse sempre più gravose, giacché di soldi
se ne spendevano parecchi in Libia e in Abissinia.
Lo seppero quando alcuni commercianti
forestieri vennero ad offrire prezzi assai convenienti per i rizomi delle
canne. Si diffuse subito nel paese un’aria nuova, quasi un po’ di allegria nei
visi rugosi e sdentati di tanti contadini resi vecchi anzi tempo per le fatiche
e gli stenti della vita: vedevano la possibilità di maneggiare finalmente
qualche soldo, che ravvivava le loro speranze.
E si dettero a cavare i rizomi delle canne,
a “cioccare” i canneti, a finirli. Io vidi allora persino camion carichi di
rizomi risalire la strada sterrata di
“Sandunicola”, con i contadini che avevano negli occhi un’altra luce, anche se
ora avevano saputo che da quei rizomi le industrie avrebbero fabbricato la
nitrocellulosa, la polvere da sparo per la produzione di bombe e proiettili in
preparazione di una nuova guerra.
Lo sapevano che dopo la guerra d’Abissinia e
la guerra civile spagnola ci sarebbe stata per i loro figli una nuova guerra,
cui miravano la “battaglia demografica” e la tassa sul celibato. E sapevano che
i rizomi delle canne servivano per i proiettili che avrebbero sparato i loro
figli. Ma quei soldi ricavati quasi a buon mercato, quando c’era la crisi del
commercio delle uve e del vino, li rendevano più leggeri ed allegri, quasi un
po’ felici. Anche se poi, dopo qualche anno, l’avremmo tutti pagata cara.