TERZO ATTACCO AEREO
In uno
degli ultimi giorni di marzo del 1944, non ricordo quale di preciso, in una
giornata meravigliosa come erano quelle delle primavere di quel tempo, io e mio
fratello stavamo a diboscare una piccolissima macchia che occupava un angolo
del nostro podere. Lo facevamo soprattutto con la vanga, scassando il terreno
per due fitte, ma anche con la pala per rimuovere la terra scavata, e con
l’accetta per tagliare le radici più grosse di alcune quercette. C’erano anche
un mio cugino e un bambino che mio fratello si era portato perché figlio di un
suo amico romano.
Era passato solo qualche giorno dal secondo attacco aereo e noi
lavoravamo serenamente. Verso le dieci sentimmo un rombo continuo nel cielo; guardammo
e vedemmo arrivare dalle parti di Montorio ventiquattro bombardieri alleati.
Mentre li guardavamo arrivare quasi sopra di noi per capire dove fossero
diretti, vedemmo un segnale di fumo nero lanciato dall’aereo di testa e subito
mio fratello e mio cugino che erano reduci di guerra gridarono: A terra! A
terra! E ci buttammo tutti nella fitta dello scassato, uno dietro l’altro, e il
bambino sotto mio fratello che lo proteggeva.
Passò solo qualche secondo prima di sentire i fischi nell’aria delle
bombe che cadevano e poi gli scoppi e boati
che facevano tremare la terra per i depositi di tubi di gelatina e di tritolo che
saltavano in aria e che erano nascosti tra gli ulivi poco prima del cimitero:
un bombardamento non più come quelli sentiti ogni giorno da lontano, ma un
bombardamento vicino, a non più di alcune centinaia di metri da noi, anche se
noi li sentivamo appena al di là dalla collina.
Andati via gli aerei, noi sentivamo ancora un continuo scoppiare di proiettili nei
depositi nascosti negli uliveti che fiancheggiavano la Maremmana e che non
erano stati colpiti direttamente dal bombardamento: forse i proiettili
scoppiavano l’uno dopo l’altro per surriscaldamenti successivi.
Noi avevamo paura che gli aerei tornassero ancora per una nuova ondata e
perciò corremmo a ripararci sotto un greppo di cappellaccio, residuo di una
vecchia cava di pozzolana. Vi restammo per quasi un’ora, perché gli scoppi non accennavano a cessare.
Io e mio cugino allora uscimmo dal riparo per vedere in direzione degli
scoppi e renderci conto della situazione, ma in quel momento ci fu una fiammata
così grande che sembrava incendiare il
cielo sopra la nostra collina, e un boato secco fece tremare la terra. Ci
buttammo di nuovo sotto il greppo di
cappellaccio e sentimmo nell’aria sopra di noi fischiare cose che andavano a
cadere sulla collina opposta.
Che cosa era successo lo sapemmo dopo: era scoppiato il casale
isolato in un campo di ulivi a fianco della Maremmana, nel cui primo
piano era alloggiato il comando tedesco della zona e nel piano terra era
collocato un deposito di tritolo.
Quelle cose volate sopra di noi
erano piccoli blocchi di cemento, il catenaccio della porta e altri pezzi di
ferro e pietra, mentre pezzi di travi contorti e un torchio erano volati ad alcune centinaia di metri dal luogo dello
scoppio.
In seguito sapemmo che i tedeschi del comando urlavano disperati dalle finestre del casale,
ma non potevano fuggire e scampare per la grande quantità di proiettili che
scoppiavano loro intorno. Con lo scoppio del deposito di tritolo al piano terra essi si volatilizzarono assieme al casale, al cui
posto rimase una buca enorme e profonda diversi metri.
Poi sapemmo che poco più lontano da quel luogo
erano stati colpiti dalle bombe e
morirono due miei coetanei del mio paese, che si erano recati la mattina per
lavoro nei campi.