MAREMMANA
Il mio paese è collegato mediante la
Maremmana Inferiore. Non ho mai capito perché sia stata chiamata così, ma
certamente è una strada che mi richiama un’infinità di ricordi, a cominciare da
quando ero bambino ed essa era una strada bianca, cioè coperta di breccia.
Mi ci rivedo al margine di un fiume di
gente, quando avevo cinque anni, e mia madre mi portava per mano durante la
traslazione della salma del passionista Padre Bernardo, che poi è stato
proclamato Beato.
E mi ci rivedo quando potevo avere si e no
sei o sette anni e, d’estate, vi corsi
scalzo, con altri più grandi, a vedere
lo “sconcassè” (forse dal francese “concasseur”) che con un rumore
d’inferno macinava grosse pietre a circa un chilometro da casa, riducendole in
breccia per la nuova pavimentazione della strada.
Quel giorno, dopo un po’ che avevo visto
quella frantumazione di pietre , me ne tornai da solo e, dopo aver camminato un centinaio di metri al sole
rovente, vidi un serpente che mi attraversava la strada e che mi parve lungo
quanto era larga la stessa strada, cioè almeno sei metri: certamente questa
lunghezza non era reale, ma frutto della mia impressione di bambino, che però
mi è rimasta incancellabile.
Tutta quella breccia “trebbiata” dallo “sconcassè” veniva trasportata con un camion
con gomme piene e che veniva messo in
moto con la manovella inserita anteriormente nel motore. La breccia veniva scaricata
dal camion in mucchi distanziati al margine della strada, poi manualmente
distribuita con le pale sulla superficie stradale e, quindi, ricoperta con
brecciolino più fine.
Il traffico stradale era allora costituito dal
passaggio di qualche camion, raramente di qualche vettura, soprattutto di parecchie “vignarole e carrettini tirati da cavalli,
nonché da due autobus, che noi dicevamo “i postali” perché portavano anche la posta: uno andava
direttamente a Roma per la Tiburtina e l’altro andava alla Stazione di Fara
Sabina sulla Salaria.
Forse un anno dopo, però, arrivarono altri
camion con l’asfalto e la strada bianca divenne nera e levigata, e, poiché l’asfalto
veniva compresso con rulli cilindrici, non fu detta da noi solo “Strada romana”
( perché conduceva Roma) ma anche “Strada
cilindrata”, cioè strada con l’asfalto compresso con cilindri o rulli
pesantissimi.
A volte mi ritorna in mente il flusso delle
macchine verso Roma per effetto delle deviazioni del traffico della Salaria. Quando
accadeva, per noi ragazzini era un spettacolo. Tutte le auto che dal Piceno, dal
Reatino e da parte dell’Aquilano andavano
verso Roma, a causa delle tracimazioni del Tevere, venivano dirottate sulla
Maremmana all’altezza di La Creta per poi passare da noi. Noi ragazzi
c’incantavamo a vedere il flusso continuo e meraviglioso delle vetture, delle
corriere, dei camion, che andavano verso Roma in una colonna senza fine.
Un altro ricordo che mi torna in mente è
quello del Giro d’Italia. Ero ragazzo,
forse era nel 1937 e stavo con tanta gente al Mascherone, in paese, lungo
la Maremmana. Cominciarono a passare una
dopo l’altra un’infinità di auto colorate e piene di scritte pubblicitarie che
precedevano la corsa.
C’era un gran vociare di megafoni da quelle
auto commerciali per propagandare prodotti industriali, come in una fiera di
ambulanti; anzi molte macchine offrivano e gettavano sulla strada cappellini con
scritte reclamistiche e piccole confezioni dei loro prodotti. Era davvero una
festa per noi ragazzini. Ad un certo punto, dopo qualche ora di quella fiera vociante, alcune auto, con l’altoparlante,
annunciarono la vittoria di Bartali nella scalata del Terminillo. Batterono
tutti le mani perché era già cominciato il tifo dei bartaliani. Poi passò tutto
il gruppo dei corridori e dopo mezzora la Maremmana si svuotò e ritornò subito
nel silenzio della normalità.
Non
ricordo se fu l’anno dopo che vidi
un’altra volta il passaggio del Giro.
Quel giorno mio padre mi disse di portare le pecore al pascolo lungo il
greto del Risecco, dove potevano trovare tant’erba da saziarsi e poi di
condurle in un terreno attiguo al fosso e confinante con la Maremmana.
Ero in quel campo con le pecore, quando
cominciarono a passare le auto colorate
di scritte sulle fiancate in un susseguirsi che pareva interminabile. Però
allora si era in campagna, e tutta quella colonna di auto passava quasi in
silenzio; si sentivano solo il rumore dei motori e delle ruote sulla strada.
Per me era ugualmente uno spettacolo entusiasmante, specialmente quando il
gruppo dei corridori mi passò davanti e subito scomparve nelle curve col
fruscio leggero delle biciclette.
Nacque allora il mio tifo per Bartali e un
accanito interesse alle notizie degli avvenimenti ciclistici, che seguivo sui
giornali, ma che poi mi crebbe a dismisura con la televisione.
Un altro fatto importante che io vedevo in
quegli stessi anni del ciclismo, ma che forse avveniva da secoli, era la
transumanza dei pastori con le loro pecore, che da noi accadeva proprio sulla
Maremmana. Il nostro paese era una loro sosta, appena fuori però, in un uliveto
del principe Torlonia di circa una dozzina di ettari.
Le pecore scendevano a centinaia e centinaia dai
pascoli montani dell’Alta Sabina, certamente da Leonessa e dal Terminillo, ma
forse anche da altre località del Reatino e dalla zona di Amatrice, negli
ultimi giorni di settembre, perché l’affitto dei pascoli per il periodo invernale
tradizionalmente datava dal giorno di San Michele. Ripassavano da noi, risalendo
dalla campagna di Roma verso i monti della Sabina a cominciare dal giorno
dell’Annunziata, in cui cessava l’affitto del pascolo e i prati venivano destinati alla fienagione.
Le date allora si davano con i giorni dei santi nel mondo dei contadini e dei
pastori, forse secondo la tradizione dei secoli
passati.
Sia
all’andata che al ritorno le greggi si fermavano in quell’uliveto per una notte
prima di riprendere il cammino verso la campagna di Roma, in quello che era il
loro territorio di pascolo a Monte Sacro
e che stava allora diventando
Città Giardino con i progetti edificatori del fascismo.
Quella sosta era l’occasione per mio nonno
per comprare una punta di castrati da macellare uno o due per ogni settimana
nella sua piccola macelleria dentro la
parte vecchia del paese; e l’occasione per mio padre per comprare una punta di
pecore in parte per allevarle per il formaggio e la lana, e in parte per
macellarne una o due per settimana nella sua piccola macelleria nella parte
nuova del paese.
I preliminari dell’acquisto venivano fatti
ospitando a cena i vergari in casa di mio nonno o in casa nostra. Fu così che
gli ospiti di casa nostra insegnarono a mia madre come cucinare gli spaghetti
alla matriciana, rigorosamente in bianco e con una variante però: mettere sul
guanciale un po’ di acqua per rendere più leggero e più digeribile quel piatto
sostanzioso e saporito. Un piatto che ricordo da sempre, perché mi richiama
molti particolari di quei tempi.
Ma poi
venne la guerra, la seconda guerra mondiale. Tra le prime cose che vennero a
mancare, oltre al sale bianco e al pane per chi non aveva grano, fu il
carburante per le auto, specialmente per
le corriere. Con la politica dell’autarchia,
si realizzarono motori a gasogeno che furono applicati alle corriere.
Così anche sulla Maremmana agli autobus che
viaggiavano sulla linea del nostro paese per Roma furono applicati i motori a
gasogeno, con la camera di combustione, a forma di un grosso cilindro con più di mezzo metro di diametro ed alta
quanto l’autobus, applicata all’esterno della parte posteriore dell’autobus.
La camera di combustione veniva caricata di
acqua e di carbone o carbonella. Quindi l’autobus partiva pieno di viaggiatori
a velocità ridotta, perché la sua forza di trazione ne risultava quasi
dimezzata.
Lungo il viaggio, a volte non c’era più carbonella disponibile;
allora l’autista e gli stessi viaggiatori si davano alla caccia di pezzi di legna da ardere, specialmente di
fascine, di frasche e tralci secchi
delle potature nelle vigne dei campi che fiancheggiavano la strada. A
volte l’autobus non riusciva ad andare sulle salite; ed
allora erano i viaggiatori a scendere ed a spingere l’autobus fino al superamento
della salita.
Accadevano scene drammatiche, specialmente per i ritardi, che danneggiavano
i viaggiatori. In genere, finiva tutto nella
rassegnazione della gente, che però si sfogava con le barzellette
sull’autarchia e sulla presuntuosità del governo che voleva fare la guerra senza possedere le
necessarie risorse.