1943: NATALE PRIGIONIERI
E CANNOLI
Natale 1943. Notte santa. E santa incoscienza. Non mia soltanto, che
avevo allora appena compiuto diciassette anni. Ma dei grandi, di quelli che
cominciavano ad avere i capelli bianchi e che avrebbero dovuto avere più
prudenza. Che non l’ebbero non per superficialità, ma per profonda umanità, per
solidarietà umana; nella brama della liberazione dai tedeschi e dalla guerra,
quando c’era la resistenza.
Eravamo a casa di zia Santa. Fuori c’era soltanto
l’oscurità del coprifuoco, in cui incombevano i passi minacciosi dei tedeschi,
che erano di stanza nel nostro paese. Ci stavano per gestire un centro di
rifornimento di munizioni per il fronte di Cassino, ma anche per rastrellare i
prigionieri alleati liberati l’otto settembre dal campo di concentramento di
Santa Maria, molti dei quali s’erano rifugiati nelle campagne, in nascondigli
procurati e protetti da molti compaesani.
Nella santa incoscienza di quella sera,
facevamo festa intorno al focolare, in cui ardevano due o tre ciocchi. In
verità non c’era molto per festeggiare, forse non avevamo neanche il sale, che scarseggiava
e che a volte si comprava nero dai tabaccai. Volevamo però far vivere il Natale
anche a due prigionieri quasi come se fossero a casa loro. Davvero un
sentimento di solidarietà umana verso quelli che ancora pochi mesi prima erano
nostri nemici e nostri prigionieri. Ma ora erano perseguiti come noi, ben più
di noi, lontani dalle loro terre e dalle loro famiglie.
La
sera di Natale eravamo tra parenti. Ci
fu più allegria, quando i due prigionieri furono fatti entrare silenziosamente
e con molta prudenza, guardinghi. Ma con loro ci s’intendeva solo a gesti; e
col senso di cordialità negli occhi. Ed essi
sprizzavano gioia nel vivere un momento
di convivialità e di calore umano. Non era tanto il valore del mangiare a
tavola, che essi non avevano più provato da parecchio, forse da anni, quanto il
sentirsi accolti in famiglia.
Poi venne Michele, un pasticciere siciliano,
che da Roma si era rifugiato in paese, presso zi’ Romoletto, perché comunista
anche lui. Anzi zi’ Romolo e Michele avevano collegamenti con i comunisti e con
la resistenza, tanto che un giorno ospitarono un capo dei partigiani, un
sudafricano venuto in incognito; lo ricordo perché era basso e vestito con un
maglione scuro.
Quel Natale, Michele si era fatto dare da
mia madre una grossa ricotta di pecora ed ora portava un grosso vassoio di
cannoli siciliani. In tanta carestia, quei cannoli apparvero come brillanti in
un’oreficeria: sembrava che squillassero di luce dappertutto, anche se poi era
il loro profumo che inondava di più la stanza. Nessuno di noi aveva mai
mangiato un cannolo, neanche mai visto; tantomeno l’avevano visto i prigionieri, che
non ricordo di quale nazione fossero.
Quando li assaggiarono, i prigionieri si
misero a ballare, ridevano, scoppiavano di gioia. Per loro divenne un rito:
davano una leccatina al loro cannolo, poi lo deponevano sulla mensola del
camino come si depone un santino, come qualche cosa di sacro. Tornavano a
saltellare di gioia, poi di nuovo davano una leccatina al cannolo, spalancavano
gli occhi per il piacere e poi tornavano a deporlo sulla mensola, così per
qualche tempo. Fu un Natale meraviglioso. Anche per la convivialità con i
prigionieri. Ma anche per i cannoli.
Non ho
più dimenticato quel Natale. Ma non ho più dimenticato il piacere di quei
cannoli. Non ne ho mangiati mai più di così buoni, anzi quando ne mangio ne
rimango sempre deluso.